Ultime Sentenze Corte Cassazione – Quarta sezione Lavoro

19/05/2018

Sentenza n. 10435 del 02/05/2018 Licenziamenti

LICENZIAMENTO PER G.M.O. – MANIFESTA INSUSSISTENZA DEL FATTO – IMPOSSIBILITÀ DEL “REPECHAGE” – INCLUSIONE – TUTELA REALE – APPLICABILITÀ – NON ECCESSIVA ONEROSITÀ PER IL DATORE DI LAVORO – RILEVANZA.

Inserito il: 03/05/2018

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel regime di cui al novellato art. 18 st.lav., la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto” concerne sia le ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore e va riferita, sul piano probatorio, ad una evidente e facilmente verificabile assenza dei suddetti presupposti, a fronte della quale il giudice potrà applicare la tutela reintegratoria ove essa non sia eccessivamente onerosa per il datore.

Presidente: V. Di Cerbo

Relatore: E. Boghetich

 

 

Sentenza n. 6048 del 13/03/2018

INDENNIZZI INAIL – LIQUIDAZIONE EX ART. 13, COMMA 6, D.LGS. N. 38 DEL 2000 – MENOMAZIONI PREESISTENTI INDENNIZZATE – UNIFICAZIONE DEI POSTUMI – ESCLUSIONE

Inserito il: 23/03/2018

Qualora l’assicurato, dopo l’entrata in vigore dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, subisca un infortunio o sia affetto da una malattia professionale che aggravi una menomazione preesistente, determinata da uno o più eventi lesivi già indennizzati secondo la previgente disciplina, il nuovo grado di menomazione andrà valutato, secondo il principio di non unificazione dei postumi d cui al comma 6, seconda parte, art. 13 cit., senza tener conto delle preesistenze, e senza che rilevi se il nuovo danno sia concorrente, coesistente o riguardi lo stesso apparato inciso dalla precedente menomazione, con conseguente erogazione di due autonome prestazioni.

Presidente: G. Mammone

Relatore: R. Riverso

 

 

Ordinanza n. 5066 del 05/03/2018 Previdenza sociale

MALATTIA PROFESSIONALE NON TABELLATA – RISCHIO SPECIFICO – NECESSITÀ – ESCLUSIONE – RISCHIO CONNESSO ALL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO – RILEVANZA – NESSO DI CAUSALITÀ – SUFFICIENZA.

Inserito il: 06/03/20

Qualora l’assicurato, dopo l’entrata in vigore dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000, subisca un infortunio o sia affetto da una malattia professionale che aggravi una menomazione preesistente, determinata da uno o più eventi lesivi già indennizzati secondo la previgente disciplina, il nuovo grado di menomazione andrà valutato, secondo il principio di non unificazione dei postumi d cui al comma 6, seconda parte, art. 13 cit., senza tener conto delle preesistenze, e senza che rilevi se il nuovo danno sia concorrente, coesistente o riguardi lo stesso apparato inciso dalla precedente menomazione, con conseguente erogazione di due autonome prestazioni.

Presidente: G. Mammone

Relatore: R. Riverso

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L. 68/1999 in sintesi

28/04/2018

Allegata alla presente si inserisce una breve e sintetica guida pratica relativa al collocamento obbligatorio.

L. 68 1999 COLLOCAMENTO OBBLIGATORIO

di Gabriele D’Intino e Gianluigi Pascuzzi [*]

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

LA DENUNCIA DEI CONTRIBUTI AGRICOLI UNIFICATI IN AGRICOLTURA

15/03/2018

di Gabriele D’Intino [*]

 

Nel settore agricolo diversi adempimenti in materia di lavoro presentano profili di specialità, in considerazione della stagionalità e dell’esposizione agli eventi atmosferici.

Anche a livello previdenziale sono presenti situazioni particolari, soprattutto in relazione alla posizione degli operai agricoli[1].

Infatti, i datori di lavoro di detto comparto, riguardo al personale operaio occupato, ai fini della denuncia contributiva, sono tenuti a presentare trimestralmente la dichiarazione della manodopera occupata (mod. DMAG UNICO).

Nella dichiarazione da inviare, in via telematica, alla sede provinciale INPS competente per territorio, entro il mese successivo al trimestre di riferimento[2], occorre indicare, per ogni singolo lavoratore, le giornate lavorate e le retribuzioni mensili da assoggettare a contribuzione, distintamente per ciascun mese del trimestre precedente.

L’istituto previdenziale, in passato, è intervenuto con vari chiarimenti: in ordine alle modalità di adempimento dell’obbligo per il datore di lavoro proprietario di più fondi agricoli dislocati in diversi comuni della stessa provincia (circ. INPS 4 marzo 1999, n. 55); nel caso delle agenzie di somministrazione legate al regime contributivo dell’azienda utilizzatrice (circ. INPS 8 febbraio 2005 n. 23); per annullare e sostituire le dichiarazioni trimestrali già trasmesse o per presentare denunce di variazione (circ. INPS 21 settembre 2000 n. 157).

A seguito delle denunce, l’INPS provvede alle operazioni di calcolo ed invia al datore di lavoro dichiarante il relativo modello F 24 precompilato, con l’indicazione dell’ammontare dei contributi da versare, sulla base delle aliquote in vigore[3].

Giova ricordare che la gestione del rapporto assicurativo è tutta in capo all’INPS, che accerta e riscuote i contributi, riversando, successivamente, all’INAIL, la quota parte contributiva relativa all’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali.

Fatta questa doverosa premessa in ordine alle peculiarità di natura previdenziale che fanno capo al datore di lavoro agricolo, va detto che, negli ultimi anni, si è assistito ad uno sforzo del legislatore per cercare di adeguare il regime normativo del comparto agricolo alla disciplina degli altri settori. Si pensi alla determinazione dell’imponibile previdenziale attraverso l’abolizione del salario medio convenzionale per gli operai agricoli e il passaggio al minimale di legge, alle semplificazioni introdotte con il D.L. n. 112/2008, che hanno portato alla definitiva abrogazione del registro d’impresa e all’introduzione del libro unico del lavoro anche per il settore agricolo, al graduale allineamento dell’aliquota contributiva IVS dei lavoratori agricoli rispetto a quella prevista per gli altri settori produttivi, mediante un incremento annuale dello 0,20 % per la generalità delle aziende agricole, fino al raggiungimento dell’aliquota contributiva del 32,30 % (art. 3, comma 1, D. Lgs. 146/97) nonché  all’adeguamento dei trattamenti economici dei lavoratori agricoli mediante accordi provinciali di riallineamento retributivo che possono demandare la definizione di tutto o parte del programma di graduale riallineamento anche agli accordi aziendali (art. 10, comma 1, L. n. 199/2016).

In questa ottica,  proprio la L. n. 199/2016 (c.d. legge per il contrasto al caporalato ed allo sfruttamento del lavoro), ha previsto, all’art. 8, comma 2, ai fini del pagamento dei contributi INPS, il passaggio dalle denunce trimestrali dei contributi agricoli unificati (Mod. DMAG UNICO) alle denuncia contributiva mensile, attraverso la procedura telematica “UniEmens”, come in uso negli altri settori merceologici (denominato “UniEmens PosAgri” per il settore agricolo). Peraltro, recentemente, l’INPS aveva fornito indicazioni riguardo alla nuova modalità di denuncia contributiva, che secondo la precitata norma prevedeva l’adattamento del sistema UniEmens al settore agricolo, con effetto sulle retribuzioni dovute a partire dal mese di gennaio 2018, senza intervenire sul vigente sistema di tutele assistenziali e previdenziali previste per i lavoratori agricoli, sulla compilazione e pubblicazione telematica degli elenchi annuali e di variazione dei lavoratori agricoli, l’attivazione del servizio di tariffazione da parte dell’INPS e le scadenze di pagamento.

Inizialmente l’INPS aveva previsto una “fase transitoria” relativamente al 1° Trimestre 2018; in tale arco di tempo i datori di lavoro agricoli potevano optare per la denuncia contributiva “ordinaria” col sistema DMAG ovvero con il nuovo sistema UniEmens. Tale opzione (facoltativa) era alternativa e, una volta prescelta, era obbligatoria per tutto il periodo transitorio.

Inoltre, l’Istituto previdenziale aveva precisato che la denuncia mensile (UniEmens PosAgri) poteva essere presentata entro la fine del mese successivo a quello di interesse (ad es. entro la fine di febbraio la denuncia relativa al mese di gennaio). Erano stati forniti chiarimenti anche in ordine alla possibilità di sostituire la denuncia mensile con una nuova denuncia entro il termine di presentazione del DMAG nel trimestre di riferimento (ad es. la denuncia relativa al mese di gennaio doveva essere presentata entro febbraio e poteva essere sostituita entro aprile). Quindi, era possibile trasmettere, nel rispetto dei termini innanzi indicati, una nuova denuncia relativa al medesimo mese che sostituiva la precedente, senza presentazione di denuncia di variazione. Allo spirare dei termini di cui sopra, era necessario presentare una nuova denuncia di variazione e non era più possibile effettuare una semplice sostituzione della denuncia. Tuttavia, la denuncia di variazione poteva essere inoltrata solo quando questa  determinava l’aumento della retribuzione imponibile e, quindi, dei contributi agricoli unificati  da pagare.

L’INPS è intervenuto sullo stesso argomento, con messaggio n. 4921 del 07/12/2017, al fine di chiarire le nuove procedure per la profilazione dei soggetti abilitati ad operare le denunce mensili delle retribuzioni nel settore agricolo, in qualità di datori di lavoro o intermediari, autorizzati ai sensi dell’articolo 1, della Legge n. 12/1979, o iscritti all’Albo dei periti agrari o agrotecnici.

A tal fine, è stato implementato il sistema di “Gestione deleghe”, comprese le modalità di trasmissione e validazione delle varie tipologie, attraverso la totale integrazione dei suddetti soggetti riferiti al settore agricolo e sono state previste le seguenti metodologie operative.

1.La delega diretta: quando il titolare dell’azienda o, per la persona giuridica, il rappresentante legale effettuano gli adempimenti contributivi per proprio conto; ai fini degli adempimenti contributivi di cui si tratta, i titolari di azienda e/o i loro rappresentanti legali devono essere in possesso di un PIN aziende, non essendo sufficiente la profilazione con il solo PIN “cittadino”. All’uopo, il soggetto interessato dovrà recarsi presso la sede INPS territorialmente competente, precompilando il modulo SC65 per i titolari/rappresentanti legali/altri responsabili o il modulo SC62 per i subdelegati.

2.La delega indiretta: nell’ipotesi in cui i titolari d’azienda e/o loro legali rappresentanti effettuano gli adempimenti contributivi attraverso un intermediario abilitato dalla legge. Per intermediari abilitati si intendono tutti i soggetti di cui alla Legge n. 12/1979 e i soggetti iscritti agli Albi dei Periti Agrari e Agrotecnici.

Gli intermediari abilitati sono i seguenti professionisti:

– Periti Agrari e Periti Agrari Laureati;

– Avvocati;

– Agrotecnici ed Agrotecnici laureati;

– Consulenti del lavoro;

– Dottori commercialisti;

– Ragionieri e Periti commerciali;

– Dottori Agronomi.

Il messaggio INPS precisa che i “Periti Agrari”, i “Periti Agrari Laureati”, gli “Agrotecnici” e gli  “Agrotecnici laureati”, i “Dottori Agronomi” e i “Dottori Forestali” potranno acquisire deleghe, esclusivamente, su posizioni contributive che appartengono alla gestione agricola e, per poter operare quali intermediari nei confronti dell’INPS, dovranno far pervenire apposita documentazione comprovante l’iscrizione presso il rispettivo ordine professionale alla seguente casella postale: posagri.deleghe@inps.it.

3.Delega ad associazioni di categoria: qualora i titolari d’azienda e/o i loro rappresentanti legali effettuano gli adempimenti contributivi avvalendosi delle associazioni di categoria alle quali hanno conferito mandato. Per tutte le associazioni di categoria in agricoltura, di cui all’articolo 9 bis, comma 6, della Legge n. 608/96, non si procederà ad alcuna migrazione dei dati nel sistema di “Gestione deleghe”; le stesse associazioni provvederanno ad un censimento, ex novo, delle proprie strutture sul territorio, comprensivo delle eventuali dipendenze gerarchiche, le cui risultanze saranno comunicate all’Istituto.

Infine, nelle “note finali” il messaggio INPS precisa che “non sono autorizzati alla gestione degli adempimenti contributivi e previdenziali i centri di elaborazione dati (CED), in quanto gli stessi, ai sensi dell’articolo 1, comma 5, della Legge n. 12/1979, possono effettuare esclusivamente attività esecutive e di servizio; alla medesima disciplina sono soggetti i tributaristi e gli esperti tributaristi, i consulenti fiscali, i revisori contabili che possono svolgere solo adempimenti di natura fiscale. Pertanto, le citate tipologie di professionisti non potranno fare richiesta di profilazione”.

 

A fronte delle indicazioni operative fornite dall’Istituto previdenziale, proprio a pochi giorni dall’introduzione dei flussi UniEmens anche per la contribuzione agricola unificata, l’art. 1, comma 1154, della L. 27 dicembre 2017, n.205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), pubblicata sul Suppl. Ordinario n. 62 alla G.U. n.302 del 29/12/2017 (entrata in vigore dall’1/1/2018), andando a modificare il testo dell’articolo  8,  comma  2,  della Legge 29 ottobre 2016, n. 199, ha espressamente prorogato al primo gennaio 2019 l’entrata in vigore dell’obbligo, per i datori di lavoro agricoli che occupano operai, di introdurre il sistema di denunce mensili in vigore nella generalità degli altri settori (UniEmens).

Proprio in questi giorni, con il messaggio n. 892 del 27 febbraio 2018, l’INPS ha recepito la suddetta proroga al primo gennaio 2019, disposta dalla legge di Bilancio 2018.

Pertanto, nell’anno corrente, i datori di lavoro agricoli, i professionisti abilitati e le associazioni di categoria continueranno ad effettuare le dovute denunce contributive nel settore agricolo mediante la dichiarazione trimestrale della manodopera agricola occupata (DMAG UNICO), così come a suo tempo introdotta dall’art. 6 del D. Lgs. 375/93 e s.m.i..

Viene da pensare che se da un lato il Legislatore ha recepito le raccomandazioni delle organizzazioni professionali agricole, che avevano rappresentato problemi operativi ed applicativi sia per i datori di lavoro che per gli operatori del settore con il passaggio al nuovo sistema di denuncia delle retribuzioni, dall’altro ha creato sconcerto tra coloro che si erano impegnati all’interno dell’Istituto previdenziale per portare a compimento questa innovazione, con la messa a punto dei tracciati, delle regole e dei controlli nonché delle procedure operative. Infatti, i vertici dell’INPS ritengono che la “mensilizzazione” delle denunce, così come avviene per la generalità dei lavoratori dipendenti, fornirà in modo più aggiornato e tempestivo le informazioni sui rapporti di lavoro agricolo, consentendo, in tal modo, una più efficace attività di vigilanza e, più in generale, di contrasto al caporalato, al lavoro nero e all’elusione contributiva (in tale direzione il Presidente Tito Boeri in audizione in sede di Commissioni riunite Lavoro e Agricoltura della Camera dei Deputati).

Nel frattempo è auspicabile che sia data la possibilità ai datori di lavoro del settore e alle società di software di optare, in maniera alternativa, all’invio dei flussi UniEmens rispetto alle denunce trimestrali, in modo da trasformare il 2018 in un anno di concreta sperimentazione sul campo.

     

 

 

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

 

 

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

[1] Sotto il profilo previdenziale ed assicurativo gli operai agricoli, ai sensi dell’art. 12 del D. Lgs. 375/93, sono classificati: in operai a tempo indeterminato (OTI), compreso coloro che nei 12 mesi precedenti all’assunzione hanno svolto almeno 180 gg. effettive di lavoro con diritto alla trasformazione a tempo indeterminato; operai a tempo determinato (OTD), assunti per l’esecuzione di lavori di breve durata, stagionali o saltuari, oppure per fasi lavorative o per la sostituzione di operai assenti con diritto alla conservazione del posto.

[2] Con circolare del 19 ottobre 2006, n. 115, l’INPS, nel fornire le istruzioni operative per l’invio della dichiarazione trimestrale, ha precisato anche le relative scadenze:

-per il I trimestre, entro il 30 aprile;

-per il II trimestre, entro il 31 luglio;

-per il III trimestre, entro il 31 ottobre;

-per il IV trimestre, entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello solare di riferimento.

[3]Il versamento dei contributi deve essere effettuato entro il 16 settembre ed il 16 dicembre, rispettivamente per il primo e secondo trimestre; entro il 16 marzo e il 16 giugno dell’anno successivo per il terzo e il quarto trimestre (Circ. INPS 18 dicembre 1998 n. 259).

 

Installazione Impianti Audiovisivi e altri strumenti di controllo ex art. 4 L. 300/1970

22/02/2018

di Gianluigi Pascuzzi [*]

L’Ispettorato Nazionale del lavoro ha emanato una nuova circolare esplicativa relativa ai provvedimenti autorizzatori all’installazione e all’utilizzo di impianti audiovisivi.

In particolare questa nuova circolare che segue le modifiche legislative intervenute con l’art. 23 del D.Lgs 151/2015 e il successivo art. 5, co. 2 del D.lgs 185/2016 si concentra da un lato sugli aspetti organizzativi degli uffici deputati al rilascio delle autorizzazioni dall’altro focalizza l’attenzione sul concetto di “tutela del patrimonio aziendale”.

Senza volermi dilungare troppo nell’esame di una circolare estremamente esemplificativa, di cui allego il testo integrale in calce, mi preme qui evidenziare come viene finalmente snellito e de-burocratizzato tutto l’iter autorizzatorio. Infatti, nella presentazione dell’istanza non viene più richiesta l’esibizione di documentazione tecnica come planimetrie, posizionamento e numero delle telecamere. Viene di fatto mutata la modalità dell’accertamento, da quello formale e preliminare, su carta, a quello sostanziale, da esplicarsi in sede aziendale. Tutto effettuato a maggior tutela del lavoratore e anche a garanzia delle aziende che così possono con più semplicità presentare le istanze e più velocemente ottenere il provvedimento autorizzatorio.

Quindi l’oggetto dell’attività valutativa da parte degli uffici competenti delle sedi territoriali dell’Ispettorato del Lavoro dovrà concentrarsi solo sulla effettiva sussistenza delle ragioni legittimanti il controllo ovverosia: le ragioni organizzative e produttive; quelle di sicurezza sul lavoro e quelle di tutela del patrimonio aziendale. Di conseguenza il provvedimento va rilasciato in relazione alle ragioni dichiarate nell’istanza e l’attività di controllo è legittima se strettamente funzionale alla tutela dell’interesse dichiarato che giocoforza non potrà essere modificato nel corso del tempo.

Da un punto di vista strettamente organizzativo l’attività istruttoria sarà demandata al personale ispettivo ordinario e solo in casi assolutamente eccezionali comportanti valutazioni tecniche di particolare complessità anche al personale ispettivo tecnico.

Questo nuovo aspetto organizzativo consentirà di non distogliere, in attività meramente amministrative, il personale ispettivo tecnico, che sono una risorsa più limitata rispetto agli ispettori ordinari.

L’altro aspetto che la circolare va ad approfondire è quello di tutela del patrimonio aziendale sul quale si cerca di circoscriverne i contorni vista l’ampiezza della nozione.

Sul punto, come recita la circolare… i principi di legittimità e determinatezza del fine perseguito, nonché della sua proporzionalità, correttezza e non eccedenza, impongono una gradualità nell’ampiezza e tipologia del monitoraggio. Pertanto i controlli invasivi devono essere supportati da specifiche evidenze e susseguenti all’esito di misure preventive, così come va tenuta in debito conto la comparazione dei contrapposti diritti e interessi.

La circolare evidenzia come nessuna questione può essere posta per le richieste riguardanti dispositivi collegati ad impianti antifurto che di norma si attivano soltanto alla chiusura dell’azienda e pertanto non integrano il controllo del personale dipendente neanche incidentalmente.

E’ opportuno evidenziare come quest’ultima circolare segue l’emanazione della circolare 4/2017 dove all’indomani delle modifiche dell’articolo 4 della L. 300/1970 è stato affrontato e ben declinato il concetto di strumento utile a “…rendere la prestazione lavorativa…” richiamato anche nell’attuale circolare allorquando vengono esaminati i dispositivi che utilizzano raccolta e trattamenti di dati biometrici. Richiamando il concetto sopracitato e il provvedimento del Garante della Privacy pubblicato su G.U. n° 280 del 2/12/2014, l’INL deduce che il riconoscimento biometrico installato sulle macchine con lo scopo di impedire l’utilizzo delle macchine a soggetti non autorizzati, necessario per avviare il funzionamento della stessa non può che essere considerato uno strumento indispensabile a “rendere la prestazione lavorativa..” pertanto si potrà prescindere sia dall’accordo con le rappresentanze sindacali sia dal procedimento amministrativo di carattere autorizzatorio.

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

INL-Circolare-n-5-del-19-febbraio-2018-Videosorveglianza-signedINL-circolare-4-2017-call-center-e-videosorveglianza

INL-circolare-4-2017-call-center-e-videosorveglianzaINL-Circolare-n-5-del-19-febbraio-2018-Videosorveglianza-signed

GLI OBBLIGHI OCCUPAZIONALI IN MATERIA DI COLLOCAMENTO OBBLIGATORIO

08/02/2018

di Gabriele D’Intino [*]

 

Nel nostro ordinamento le norme per il diritto al lavoro dei disabili sono contemplate nella Legge n. 68/99, entrata in vigore l’11 Gennaio 2000.

La finalità precipua del legislatore è quella di promuovere l’inserimento lavorativo dei disabili attraverso il c.d. “collocamento mirato”, quale insieme di interventi e strumenti volti al contemperamento delle esigenze produttive dei datori di lavoro da un lato e della piena integrazione dei soggetti diversamente abili dall’altro.

Di recente, in applicazione della delega al Governo contenuta nell’art. 1, comma 3, della Legge n. 183/2014, è stato emanato il D. Lgs. n. 151/2015 (decreto semplificazioni) che ha apportato numerose modifiche alla L. n. 68/99, al fine di semplificare le procedure e, nel contempo, agevolare l’inserimento lavorativo dei disabili, come di seguito specificato.

  • Art. 1 – riguardo ai soggetti destinatari della norma, con introduzione di un’ulteriore categoria di beneficiari delle norme per il diritto al lavoro dei disabili: trattasi dei soggetti che si trovano nelle condizioni di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 12 giugno 1984, n. 222, vale a dire che sono affetti da minorazioni di natura fisica o mentali che comportano una riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo e in modo permanente. Trattandosi di lavoratori nei confronti dei quali l’INPS ha già accertato l’invalidità civile, la tutela nei loro confronti è automatica e non necessita di ulteriori passaggi.
  • Art. 3 – relativamente all’eliminazione del regime di gradualità nelle assunzioni da parte delle PMI (da 15 a 35 dipendenti), che dall’1/1/2018 dovranno rispettare le modalità di assunzione previste per la generalità dei datori di lavoro, indipendentemente dal fatto se procedano o meno a nuove assunzioni (vedi infra).
  • Art. 4 – in tema di assunzioni obbligatorie, il datore di lavoro potrà computare nella quota di riserva i prestatori disabili anteriormente alla costituzione del rapporto di lavoro, sebbene non assunti tramite le procedure dettate dalla L. 68/99, nel caso in cui abbiano una riduzione della capacità lavorativa pari o superiore al 60 per cento ovvero del 45 per cento nel caso in cui si tratti di disabilità intellettiva o psichica.
  • Art. 5 – a) estende ai datori di lavoro pubblici la possibilità di effettuare la compensazione territoriale nell’ambito della stessa regione senza richiedere l’autorizzazione, con l’obbligo invariato di effettuare le dovute comunicazioni per il tramite del prospetto informativo aziendale; b) introduce la possibilità di far ricorso all’esonero dagli obblighi occupazionali per le lavorazioni con tasso di premio ai fini INAIL pari o superiore al 60 per mille, previa presentazione di sola autocertificazione e pagamento del relativo contributo esonerativo.
  • Art. 7 – sempre in tema do assunzione viene introdotta, per i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici, la possibilità di assumere mediante richiesta nominativa o convenzione. Pertanto, viene eliminata la quota di assunzioni numeriche e si da la possibilità di precedere alla richiesta nominativa con una ulteriore richiesta agli uffici competenti di preselezione dei lavoratori disabili iscritti nell’apposito elenco aderenti all’offerta di lavoro, sulla base delle qualifiche e secondo le modalità concordate dal servizio competente con il datore di lavoro stesso.

Disabili

Il collocamento obbligatorio è riservato a tutte le persone disabili in età lavorativa. Per disabili, ai fini dell’iscrizione nei relativi elenchi, si intendono gli appartenenti ad una delle seguenti categorie (art. 1 L. n. 68/1999):

-Invalidi civili: persone affette da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, riconosciuta da parte delle Commissioni mediche istituite presso le Aziende Sanitarie Locali a norma dell’articolo 4 della L. 104/1992;

-Invalidi del lavoro con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 33% riconosciuta da parte dell’INAIL;

-Non vedenti colpiti da cecità assoluta o con un residuo visivo non superiore ad un decimo ad entrambi gli occhi, con eventuale correzione;

-Sordomuti dalla nascita o prima dell’apprendimento della lingua parlata;

-Invalidi di guerra, invalidi civili di guerra con minorazioni dalla prima all’ottava categoria e invalidi per servizio (ex dipendenti pubblici, compresi i militari);

-Invalidi la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle proprie attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di 1/3 (coloro che beneficiano di assegno di invalidità con accertamento della disabilità direttamente da parte dell’INPS);

-Lavoratori divenuti inabili allo svolgimento delle proprie mansioni per infortunio o malattia con riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al 60% ovvero per infortunio sul lavoro o malattia professionale con riduzione pari o superiore al 33%;

-Lavoratori già invalidi prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se assunti al di fuori delle procedure che regolano il collocamento obbligatorio, con invalidità civile superiore al 60% o invalidità derivante da infortunio o malattia professionale superiore al 33%;

-Lavoratori già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se assunti al di fuori delle procedure che regolano il collocamento obbligatorio, nei casi previsti dall’art. 4 del D.Lgs. 151/2015 (riduzione capacità lavorativa pari o superiore al 60%, minorazioni ascritte dalla prima alla sesta categoria di cui alle Tabelle annesse al D.P.R. 915/78 nonché disabilità intellettiva e psichica, con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%).

Categorie protette

In attesa di una revisione organica della disciplina delle “categorie protette”, la legge n. 68/99 prescrive, all’art. 18, comma 2,  una quota di riserva sul numero dei dipendenti occupati dai datori di lavoro pubblici e privati anche nei confronti  delle sotto indicate categorie di lavoratori:

-Coniuge superstite e orfani di coloro che sono deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio ed equiparati, ossia coniugi e figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di servizio o di guerra con pensione di prima categoria o grandi invalidi del lavoro dichiarati incollocabili;

-Profughi italiani rimpatriati, i quali devono presentare apposito certificato attestante la qualità di Profugo rilasciato dalla Prefettura.

Tale quota di riserva aggiuntiva è pari all’ 1% dell’organico nelle aziende con oltre 50 dipendenti, arrotondata ad un’unità per le aziende che occupano da 50 a 150 dipendenti.

La medesima disciplina si applica, inoltre, anche alle vittime del terrorismo, della criminalità organizzata o del dovere e ai loro familiari, ai sensi dell’art. 1, 2° comma, L. n. 407/1998, come sostituito dall’art. 2 L. n. 288/1999[1].

Quota di riserva di assunzione dei lavoratori disabili

Come è noto al superamento di una certa base dimensionale il datore di lavoro, rispettivamente, entra nella platea dei destinatari del collocamento obbligatorio, accede della fascia dimensionale successiva ovvero effettua l’ennesima assunzione che comporta l’obbligo di assunzione di una ulteriore unità disabile, applicando sull’organico aziendale l’aliquota di legge.

L’art. 3 della richiamata legge per il diritto al lavoro dei disabili stabilisce le quote di riserva da applicare sull’organico aziendale, da considerare nella sua interezza in ambito nazionale, come riportato nella sottostante tabella.

Base di computo Quota d’obbligo di assunzione
Da 15 a 35 dipendenti 1 lavoratore disabile
Da 36 a 50 dipendenti 2 lavoratori disabili
Oltre 50 dipendenti 7% dei posti a favore dei lavoratori disabili e, fino a 150 dipendenti, 1 unità appartenente alle categorie protette; oltre 150 dipendenti le categorie protette devono essere assunte nella misura dell’1%.

Insorgenza dell’obbligo

Datori di lavoro da 15 a 35 dipendenti

Le PMI sono tenute, al raggiungimento della soglia occupazionale di 15 dipendenti c.d. validi e computabili, all’assunzione di n. 1 unità disabile. L’art. 3, comma 1, del D. Lgs. 151/2015 ha previsto l’abrogazione dell’art. 3, comma 2, della L. n. 68/99, che prevedeva l’insorgenza dell’obbligo per i datori di lavoro appartenenti a tale fascia dimensionale solo in caso di nuove assunzioni. Tale abrogazione ha comportato, implicitamente, anche la caducazione dell’art.2, comma 2, del D.P.R. n. 333/2000, che, a tal proposito, prevedeva, nel caso di intervenuta nuova assunzione, l’insorgenza dell’obbligo decorsi 12 mesi dalla nuova assunzione. Inizialmente l’abrogazione di dette norme era prevista a far data dal 01/01/2017 con l’ovvia conseguenza che i datori di lavoro interessati entro il 2 marzo 2017 avrebbero dovuto procedere attraverso una richiesta nominativa indirizzata al Servizio provinciale competente.  Tuttavia, proprio in prossimità della suddetta scadenza, con L. 27/2/2017, n. 19, è intervenuta la conversione, con modificazioni, del D. L. 30/12/2016, n. 244, che ha previsto lo slittamento della gradualità per le PMI al 01/01/2018. Pertanto, è di stretta attualità il fatto che entro il 2 marzo p.v. i datori di lavoro ricompresi nella fascia dimensionale di cui all’art. 3, comma 1, lett. c), in caso di scopertura in atto, devono procedere alla presentazione della richiesta al Servizio per il collocamento mirato, indipendentemente dal fatto che effettuino o meno una nuova assunzione.

E’ il caso di ricordare che si assolve all’obbligo de quo anche attraverso la presentazione del prospetto informativo di cui all’art. 9, comma 6, della L. n. 68/99, secondo le modalità indicate dal Decreto MLPS,

di concerto con il Ministero per la P.A. e l’innovazione, del 2/11/2010, che equivale alla presentazione della richiesta (art.2, comma 4, D.P.R. n. 333/2000).

Partiti politici, organizzazioni sindacali e non lucrative che operano nel campo della solidarietà sociale, dell’assistenza e riabilitazione

In relazione agli obblighi in materia di collocamento obbligatorio da parte dei datori di lavoro appartenenti a dette categorie, l’art. 3, comma 2, del D. Lgs. 151/2015 ha previsto l’abrogazione, all’articolo 3, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, della parte in cui si prevedeva che l’obbligo di presentazione della richiesta insorgesse solo in caso di nuova assunzione. Tale abrogazione ha effetto a far data dall’1/1/2018, secondo quanto disposto dal D.L. 30/12/2016, n. 244, convertito in L. 27/2/2017, n. 19. Conseguentemente, anche per questa tipologia di datori di lavoro viene meno la c.d. moratoria e l’obbligo andrà assolto, in caso di scopertura, in maniera perentoria, entro il 2/3/2018.

Datori di lavoro da 36 a 50 dipendenti

Nulla cambia rispetto ai datori di lavoro ricompresi nella fascia dimensionale prevista dall’art. 3, comma 1, lett. b), i quali sono tenuti, nel rispetto della regola generale sancita dal combinato disposto dell’art. 9, comma 1, della L. n. 68/99 e dal richiamato art. 2, comma 4, D.P.R. n. 333/2000, alla presentazione della richiesta/prospetto entro 60 gg. dall’insorgenza dell’obbligo, che coincide con l’incremento occupazionale dettato da una nuova assunzione incidente sul computo della quota di riserva.

Datori di lavoro con oltre 50 dipendenti

Parimenti, i datori di lavoro che rientrano nella fattispecie  prevista dall’art. 3, comma 1, lett. a), sono tenuti alla presentazione della richiesta nei canonici 60 gg. previsti dalle disposizioni di legge sopra richiamate.

Dimensione occupazionale

Ai fini della determinazione della base di computo sulla quale applicare l’aliquota di legge, si considerano, di norma, tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato.

I lavoratori assunti con contratto part-time vanno computati in proporzione alla durata oraria prevista dal CCNL di categoria e, in caso di presenza di più lavoratori che operano con orario ridotto, il calcolo aritmetico si effettua sommando le ore di tutti i contratti part-time e rapportando la somma ottenuta con le ore previste dal CCNL per il tempo pieno, con successivo arrotondamento all’unità delle frazioni superiori al 50 per cento (Circ. MLPS 26/6/2000, n.41).

Sono esclusi dalla base di computo, secondo quanto previsto dall’art. 4 della L. n. 68/99 e dall’art. 3 del D.P.R. n. 333/2000 (Regolamento di attuazione della legge n. 68/99), le seguenti tipologie di lavoratori:

-i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato di durata fino a 6 mesi;

-i lavoratori occupati con contratto a tempo determinato di durata superiore a 6 mesi, solo se assunti per ragioni sostitutive;

-i soci di cooperative di produzione e lavoro;

-i dirigenti;

-i lavoratori assunti con contratto di reinserimento;

-i lavoratori con contratto di formazione-lavoro;

-gli apprendisti;

-i lavoratori con contratto di somministrazione in missione presso l’impresa utilizzatrice -tali lavoratori non sono computati nell’organico dell’agenzia di somministrazione, ai sensi dell’art. 4, c. 27, lett. a) della L. 92/2012, né in quello dell’utilizzatore ex art. 34, c. 3, del D. Lgs. 81/2015-;

-i lavoratori a domicilio;

-i lavoratori assunti per attività lavorativa da svolgersi esclusivamente all’estero per tutta la durata di tale attività;

-i soggetti impegnati in lavori socialmente utili;

-i lavoratori che aderiscono al “programma di emersione”;

-i lavoratori assunti ai sensi della L. 68/1999;

– i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni per infortunio o malattia con una riduzione pari o superiore al 60%, a condizione che tale inabilità non scaturisca da un inadempimento del datore di lavoro in materia di sicurezza od igiene sul lavoro, accertato, in via definitiva, in sede giurisdizionale;

-i lavoratori divenuti invalidi dopo l’assunzione, per infortunio sul lavoro o malattia professionale con grado di invalidità superiore al 33%;

-invalidi civili assunti al di fuori delle procedure che regolano il collocamento obbligatorio;

-orfani e coniugi superstiti nei limiti della percentuale prevista dall’art. 18, comma 2, della legge n. 68/99 (1%).

Esclusioni

Vi sono alcuni settori lavorativi per i quali l’obbligo di assumere lavoratori disabili non sussiste in riferimento a particolari categorie di lavoratori che non vengono neanche considerati ai fini della determinazione della base di computo:

1) nel settore edile non si computa il personale di cantiere e quello addetto al trasporto per espressa previsione dell’art.1, comma 53, della Legge 247/2007 (si veda nota Min. Lavoro 29 gennaio 2008 n. 13/III/002256);

2) il personale direttamente operante nei montaggi industriali o impiantistici e nelle relative opere svolte in cantiere, indipendentemente dall’inquadramento nel settore edile o meno, ai sensi dell’art.4, comma 27, lett. b), della L. 92/2012;

3) il personale viaggiante e navigante occupato nel settore del trasporto aereo, marittimo e terrestre, a condizione che sia adibito normalmente e prevalentemente ad attività itineranti in misura pari almeno al 51% dell’orario di lavoro settimanale svolto (Risp. Interpello Min. Lavoro 15 gennaio 2010, n. 1);

4) nel settore degli impianti a fune per il personale direttamente adibito alle aree operative di esercizio e regolarità dell’attività di trasporto;

5) il personale viaggiante occupato nel settore autotrasporti (anche in questo caso l’attività itinerante deve essere prevalente rispetto all’orario settimanale osservato);

6) il personale di sottosuolo ed adibito alle attività di movimentazione e trasporto minerale del settore minerario, in forza di quanto previsto dall’art. 2, comma 12-quater, del D.L. 225/2010 convertito in Legge n. 10/2011;

7) nel settore della vigilanza, prevenzione e primo intervento antincendio, per tutto il personale con esclusione degli amministrativi, a condizione che l’attività di vigilanza sia svolta in maniera esclusiva e i soggetti impiegati posseggano i requisiti psicofisici necessari per ottenere il rilascio del porto d’armi (sia in ambito terrestre presso teatri, musei, impianti sportivi, mostre, congressi ed impianti industriali, sia nel settore demaniale, marittimo e aereoportuale).

8) tutto il personale in forza nei partiti politici, organizzazioni sindacali e organizzazioni che senza scopo di lucro, operano nel campo della solidarietà sociale, dell’assistenza e della riabilitazione, fatta eccezione del personale tecnico-esecutivo e con funzioni amministrative.

Esonero parziale dagli obblighi occupazionali

L’istituto dell’esonero parziale dagli obblighi occupazionali in materia di collocamento obbligatorio è disciplinato dall’art. 5, comma 3, della Legge n.68/99 (procedura di esonero) nonché dal successivo comma 3-bis (lavorazioni con rischio elevato).

In sostanza, i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che ritengano, per le particolari condizioni dell’attività lavorativa svolta, di non poter impiegare l’intera percentuale dei disabili, possono presentare domanda di esonero parziale al servizio provinciale competente (per le domande di esonero riferite a più unità produttive, dislocate in diverse province, la domanda è presentata al servizio del territorio in cui il datore di lavoro ha la sede legale). L’intera procedura è disciplinata dal D.M. 7 luglio 2000, n. 357 del Min. Lavoro. Il datore di lavoro deve presentare un’istanza dettagliata, con l’indicazione delle maestranze occupate, della natura peculiare delle attività svolte, delle lavorazioni che hanno natura tale da rendere difficoltoso l’inserimento del disabile.

Il servizio competente verifica la sussistenza di speciali condizioni di attività’ invocate dal datore di lavoro, accertando la presenza, in tali attività’, di almeno una delle seguenti caratteristiche:

  1. a) faticosità’ della prestazione lavorativa richiesta;
  2. b) pericolosità’ connaturata al tipo di attività’, anche derivante da condizioni ambientali nelle quali si svolge l’attività’ stessa;
  3. c) particolare modalità’ di svolgimento dell’attività’ lavorativa.

In presenza di almeno una delle sopra riferite caratteristiche ed in assenza di mansioni compatibili con le condizioni di disabilità’ e con le capacità’ lavorative degli aventi diritto, il servizio competente può’ autorizzare l’esonero parziale fino alla misura percentuale massima del 60 per cento della quota di riserva. Tale percentuale può’ essere aumentata fino all’80 per cento per i datori di lavoro operanti nel settore della sicurezza e della vigilanza e nel settore del trasporto privato. L’autorizzazione è concessa per un periodo di tempo determinato e il datore di lavoro a fronte dell’autorizzazione è tenuto a versare un contributo esonerativo per ciascuna unità non assunta, attualmente fissato nella misura di Euro 30,64 per ogni giorno lavorativo e per ogni unità non assunta; i giorni lavorativi sono individuati sulla base delle previsioni del contratto collettivo e possono essere 5 o 6 settimanali a seconda che venga adottata o meno la settimana corta (nota Min. Lavoro 23 aprile 2001, n. 638).

Il servizio competente, qualora ritenga non sussistenti tutte le informazioni utili alla concessione dell’esonero, può richiedere all’Ispettorato territoriale del Lavoro ovvero alle strutture ASL che svolgono vigilanza in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro un accertamento tecnico volto alla verifica delle speciali condizioni previste dal richiamato D.M..

Nel caso di mancato o inesatto versamento del contributo di cui al comma 2, il servizio provvede, assegnando un congruo termine, a diffidare il datore di lavoro inadempiente; decorso tale termine il servizio trasmette le relative comunicazioni al servizio ispettivo della sede ITL in cui è’ ubicata la sede per la quale si chiede l’esonero, che provvede al calcolo delle maggiorazioni tenuto conto dell’entità’ dell’infrazione rilevata e procede, previa notifica all’interessato, di verbale contravvenzionale, all’irrogazione delle sanzioni previste dall’articolo 5, comma 5, della legge n. 68 del 1999 (Art. 2, comma 5, D.M. 357/2000).

Qualora il datore di lavoro non ottemperi, successivamente all’irrogazione delle sanzioni amministrative di cui al comma 5, al versamento del contributo secondo le modalità’ stabilite ai sensi del comma 3, il servizio dichiara, con apposito provvedimento, la decadenza dall’esonero parziale. Una nuova domanda può’ essere inoltrata non prima che siano trascorsi dodici mesi dalla precedente autorizzazione (Art. 2, comma 6, D.M. 357/2000).

Infine, il richiamato comma 3-bis dell’art. 5 della L. n. 68/99, così come inserito dall’art. 5, comma 1, lett. b), del D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 24 settembre 2015 per espressa previsione dell’art. 43, comma 1 del medesimo D. Lgs., prevede la possibilità, per i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici che occupano addetti impegnati in lavorazioni che comportano il pagamento di un tasso di premio ai fini INAIL pari  o superiore al 60 per mille, di poter autocertificare di volersi avvalere dell’esonero per i medesimi addetti. Anche in questo caso, il contributo esonerativo da versare al Fondo per il diritto al lavoro dei disabili di cui all’art.13 della Legge n. 68/99, è pari ad Euro 30,64 per ogni giorno lavorativo e per ogni disabile non occupato.

Sospensione degli obblighi occupazionali

Qualora il datore di lavoro si trovi in uno stato di crisi e sottoscriva accordi per il ricorso agli ammortizzatori sociali, per attivare le procedure di mobilità ovvero per l’incentivo all’esodo, ha diritto alla sospensione degli obblighi (Art. 3, comma 5 Legge 68/99 e Art. 4 D.P.R. n. 333/2000).

In particolare, nel caso di richiesta di intervento della CIGS o di ricorso a contratti di solidarietà difensiva si ha la sospensione degli obblighi per una durata pari a quella dei trattamenti, limitatamente al singolo ambito provinciale.

Mentre nel caso di licenziamenti collettivi, previa attivazione delle procedure di mobilità ex art. 4 e 24 della Legge n. 223/91, la sospensione permane per tutta la durata della procedura; se la stessa procedura si conclude con almeno 5 licenziamenti, la sospensione persiste per tutto il periodo in cui i lavoratori interessati hanno il diritto di precedenza per la riassunzione (6 mesi); in questo caso la sospensione ha efficacia a livello nazionale (Cfr. Cass. 16 maggio 2011, n.10731).

Qualora intervenga, invece, la sottoscrizione di accordi aziendali con l’attivazione di procedure di incentivazione all’esodo per lavoratori prossimi al pensionamento, la sospensione sarà limitata al numero di lavoratori coinvolti, avrà efficacia limitatamente alla durata della procedura medesima e riguarderà il singolo ambito provinciale.

La procedura deve essere attivata dal datore di lavoro, mediante la presentazione di apposita comunicazione al Servizio competente della sede legale dell’impresa, allegando copia del provvedimento amministrativo di riconoscimento della sussistenza delle condizioni previste dalla legge.

Alla scadenza del periodo coperto dalla sospensione il datore di lavoro ha 60 gg. di tempo per presentare la richiesta di avviamento relativa alle scoperture.

In attesa di approvazione del provvedimento che ammette ad uno dei suddetti trattamenti, il datore di lavoro può presentare domanda al servizio competente per la concessione della sospensione temporanea degli obblighi (l’autorizzazione può essere concessa per un periodo massimo di 3 mesi, rinnovabile una sola volta).

Per le imprese che fanno ricorso alla CIGS in deroga è possibile, parimenti, ottenere la sospensione degli obblighi per la durata del trattamento, con riferimento ai lavoratori coinvolti e al singolo ambito provinciale interessato a fronte della presentazione della richiesta corredata del provvedimento amministrativo di autorizzazione. Anche in questo caso è possibile ottenere una sospensione temporanea, in attesa della definizione della procedura (Risp. Interpello Ministero Lav. 10 aprile 2012, n. 10).

Modalità di assunzione

Il combinato disposto dell’art. 9, comma 1, della Legge n. 68/99 e dell’art. 2, comma 4, del D.P.R. n. 333/2000, stabilisce che, entro sessanta giorni dall’insorgenza dell’obbligo, i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici devono presentare la richiesta al servizio competente, anche attraverso l’invio del prospetto informativo contemplato nel successivo comma 6 dello stesso art. 9 della Legge n. 68/99 (solo per il settore minerario il termine è di 90 gg. dal superamento della soglia dimensionale prevista dalla legge, ex art 2, comma 12-quater, D.L. 225/2010 conv. in L. 10/2011).

Alla luce delle novità introdotte dal D. Lgs. 151/2015 (vedi infra), il soggetto obbligato potrà in ogni caso far ricorso alla richiesta nominativa (nel caso in cui disponga già del nominativo del lavoratore disabile da assumere). In alternativa, potrà richiedere al servizio competente una preselezione dei lavoratori disabili iscritti nelle liste del collocamento obbligatorio, mediante la procedura della “chiamata sui presenti”, vale a dire sulla base di adesioni ad una specifica offerta di lavoro, pubblicata in riferimento alle qualifiche e alle modalità concordate con lo stesso servizio competente. Ulteriore possibilità contemplata  nell’art. 7 della Legge n. 68/99, per assolvere all’obbligo di legge, è quella della stipula di una convenzione ex art 11 della richiamata norma per il diritto al lavoro dei disabili. Si tratta di un programma mirato di inserimento lavorativo dei soggetti disabili, che consente di dilazionare nel tempo le assunzioni e di far ricorso anche a tipologie contrattuali particolari, nell’ottica di un contemperamento delle esigenze aziendali con l’obbligo di avviare i lavoratori riservatari.

In tutti i casi sopra contemplati, il datore di lavoro può, quindi, esercitare la facoltà di richiedere nominativamente i lavoratori da avviare; qualora non eserciti tale facoltà è, comunque, tenuto a presentare la richiesta di scopertura al servizio competente nei termini di legge innanzi rassegnati. Tale adempimento sospende l’applicazione di eventuali sanzioni in tema di scoperture e pone in condizione il servizio collocamento disabili di sostituirsi al datore di lavoro ed effettuare l’avviamento numerico d’ufficio, sulla base delle adesioni dei lavoratori aventi diritto alla c.d. “chiamata sui presenti”, nell’ordine di punteggio in graduatoria.

Si evidenzia che i datori di lavoro compresi nella fascia dimensionale da 15 a 35 dipendenti che assumono un lavoratore disabile con invalidità superiore al 50% con contratto a tempo parziale, possono computare il lavoratore medesimo come unità, prescindendo dall’orario di lavoro svolto (art. 3, comma 5, D.P.R. n. 333/2000).

Un caso particolare è contemplato nel comma 3 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 81/2015, che prevede, in caso di somministrazione di lavoratore disabile per una missione di durata non inferiore a 12 mesi, la computabilità, nella quota di riserva prevista dall’art. 3 della legge n. 68/1999, da parte del soggetto utilizzatore per tutta la durata del contratto di somministrazione.

Il prospetto informativo

Nel prospetto informativo, i datori di lavoro indicano la propria situazione occupazionale rispetto agli obblighi di assunzione di personale disabile e/o appartenente alle altre categorie protette e i posti di lavoro con relative mansioni disponibili (art. 9, comma 6, L. n. 68/99).

La trasmissione deve essere effettuata in modalità esclusivamente telematiche, con riferimento alla situazione occupazionale al 31 dicembre dell’anno precedente, secondo le modalità indicate nel richiamato Decreto MLPS, emanato di concerto con il Ministero per la P.A. e l’innovazione, in data 2/11/2010 (normalmente entro il 31 gennaio).

In applicazione delle vigenti disposizioni, il prospetto deve essere inviato solo qualora, rispetto all’ultimo invio, vi siano stati cambiamenti nella situazione occupazionale tali da modificare l’obbligo di legge oppure da incidere sul computo della quota di riserva (novità introdotta dall’art. 40, comma 4, D.L. 25 giugno 2008, n 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133 e, successivamente, modificato dall’art. 6, comma 5, L. 23 luglio 2009, n. 99).

In relazione agli obblighi afferenti la corrente annualità, slitta al 28 febbraio 2018 la presentazione telematica del prospetto informativo disabili, come comunicato con avviso del 31 gennaio 2018 dal Ministero del lavoro.

Sanzioni

Le sanzioni in materia di collocamento obbligatorio sono previste nell’art. 15, comma 1, relativamente all’omesso o ritardato invio del prospetto informativo aziendale e all’art. 15, comma 4, riguardo all’omessa presentazione della richiesta entro 60 gg. dall’insorgenza della scopertura ovvero in ordine all’omessa assunzione del soggetto disabile avviato numericamente dal servizio competente, nel caso di inerzia del datore di lavoro.

In particolare, in caso di mancato o ritardato invio del prospetto riepilogativo annuale nei casi di intervenute variazioni, rispetto all’ultimo invio, nella situazione occupazionale tali da modificare l’obbligo di legge oppure da incidere sul computo della quota di riserva, entro il 31 gennaio dell’anno successivo ovvero entro il diverso termine stabilito di volta in volta con apposito provvedimento dal MLPS, la sanzione amministrativa prevista è pari ad Euro 635,11 fissa, maggiorata di Euro 30,76 per ogni giorno di ulteriore ritardo rispetto alla data di scadenza e, pertanto, la sanzione non potrà mai essere inferiore ad Euro 665,87 (somma della parte fissa più il giorno di ritardo). Nel computo del ritardo vanno considerati tutti i giorni di calendario (festivi e lavorativi). Tale violazione è diffidabile e, trattandosi di sanzione in misura fissa, in caso di ottemperanza il trasgressore sarà ammesso al pagamento di una somma pari ad un quarto dell’importo complessivo; in caso di mancata ottemperanza l’importo da pagare sarà pari ad un terzo.

Per espressa previsione della norma, tale sanzione si applica, esclusivamente, alle imprese private e agli enti pubblici economici. Mentre, in caso di violazione da parte di responsabili delle PP.AA. potrà integrarsi la sussistenza della fattispecie criminosa di cui all’art. 328 c.p., in tema di omissioni di atti d’ufficio, qualora il responsabile non dia seguito ad uno specifico atto di diffida ad adempiere impartito dal personale ispettivo della ITL territorialmente competente (nota Ministero Lav. 25 luglio 2001, prot. n. 1345).

Mentre, in caso di mancata copertura della quota d’obbligo per cause imputabili al datore di lavoro, la sanzione amministrativa prevista dal richiamato art. 15, comma 4, è pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo di cui all’art. 5, comma 3-bis, per ogni giorno di scopertura; pertanto, è pari ad Euro 153,20 per ogni lavoratore e per ogni giorno di ritardo. Anche in questo caso, si tratta di una violazione diffidabile e, per espressa previsione della norma, in relazione alla quota d’obbligo non coperta, la diffida sarà ottemperata previa presentazione agli uffici competenti della richiesta di assunzione o la stipula del contratto di lavoro con la persona con disabilità precedentemente avviata d’ufficio. La sanzione decorre dal 61° giorno successivo a quello in cui è maturato l’obbligo in caso di mancata presentazione della richiesta a fronte dell’incremento occupazionale ovvero dal giorno successivo a quello in cui il datore di lavoro, pur avendo ottemperato nei termini all’obbligo di richiesta, non abbia proceduto all’assunzione del lavoratore regolarmente avviato dal servizio competente (Circolare Ministero lav. n. 23/2001 del 16 febbraio 2001). Parimenti, in caso di ottemperanza, il datore di lavoro sarà ammesso al pagamento di una somma pari ad un quarto dell’importo complessivo; in caso contrario, la sanzione sarà pari ad un terzo dell’importo complessivo. I giorni da considerare, ai fini dell’applicazione della sanzione, sono quelli lavorativi e, pertanto, andrà vagliata specificatamente l’articolazione oraria praticata dall’azienda (su 5 o 6 gg. alla settimana), escludendo i giorni festivi non lavorativi.

Inoltre, l’art. 9, comma 8, della stessa norma per il diritto al lavoro dei disabili, prevede che “Qualora l’azienda rifiuti l’assunzione del lavoratore invalido ai sensi del presente articolo, la direzione provinciale del lavoro redige un verbale che trasmette agli uffici competenti ed all’autorità giudiziaria”. A tal proposito, il Ministero del lavoro, con la richiamata Circolare n. 23/2001, ha chiarito che l’informativa all’Autorità Giudiziaria vada riferita, esclusivamente, alle mancate assunzioni da parte delle PP. AA., in ossequio a quanto previsto dal successivo art. 15, comma 3.

Va precisato che il mancato adempimento degli obblighi assunti in convenzione per fatto imputabile al datore di lavoro non comporta l’applicazione della sanzione di cui all’art. 15, comma 4, bensì l’intervento del Servizio competente, che procede a corrispondenti avviamenti d’ufficio (Conferenza Unificata Stato- regioni e Province Autonome e Stato-città nella seduta del 22 febbraio 2001).

Infine, va ricordato che l’art. 10, comma 5, della L. 68/99 stabilisce che “In caso di risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro è tenuto a darne comunicazione, nel termine di dieci giorni, agli uffici competenti, al fine della sostituzione del lavoratore con altro avente diritto all’avviamento obbligatorio”. A tal proposito, il modello “unilav” di cessazione, avente pluriefficacia, assolve all’obbligo di che trattasi e, pertanto, l’eventuale sanzione di cui all’art. 15, comma 4^, potrà essere applicata solo in caso di mancata presentazione della comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto di lavoro con il prestatore disabile.

 

     

 

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

[1] Si veda in proposito commento del 17 giugno 2011 del dott. Francesco Colaci (https://francescocolaci.wordpress.com/…/disciplina-aggiornata-collocamento-obbligat…)

Lavoro a chiamata (job on call)

17/01/2018

di Gianluigi Pascuzzi [*]

 

Il lavoro intermittente è tra i pochi istituti della cosiddetta legge Biagi sopravvissuti, benché con sostanziali modifiche, alle trasformazioni legislative successive, mantenendo intatte le ragioni d’essere della sua formulazione ovvero sia quelle di garantire prestazioni lavorative di natura subordinata (intermittenti o a chiamata) in momenti di picco dell’attività imprenditoriale e per le quali l’imprenditore non è in grado di sopperirvi con il proprio personale.

Oggi il job on call o lavoro a chiamata che dir si voglia è rimasto forse l’ultimo baluardo di quella idea del diritto del lavoro confluita nel D.Lgs 276/03.

Il testo di legge di riferimento non è più il vecchio D.lgs 276/03, forse non a caso, ma il nuovo D.Lgs 81/2015, uno dei decreti attuativi del Job act, denominato “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.

In virtù delle varie norme succedutesi nel tempo il lavoro a chiamata ha subito vari aggiornamenti che ne hanno modificato i requisiti oggettivi e soggettivi. Senza volermi dilungare eccessivamente esaminerò solo il testo attualmente in vigore, indicandone le peculiarità.

Parametri di liceità

Il nuovo dettato normativo è inserito come detto nel D.lgs 81/2015 dagli art. 13 al 18.

Il contratto di lavoro intermittente costituisce una particolare tipologia di rapporto di lavoro subordinato, caratterizzata dall’espletamento di prestazioni di carattere “discontinuo o intermittente”.

Il ricorso al lavoro intermittente (ex  art. 13) è consentito:

  1. nelle ipotesi previste dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno, oppure per le attività elencate, nel  DM 23 ottobre 2004, con rimando alla tabella delle attività contenuta nel Rd 2657/1923,
  2. per soggetti con più di 55 anni o con meno di 24 anni di età

Secondo l’interpretazione fornita dal Ministero del Lavoro con le circolari 18 e 20/2012 è opportuno precisare che:

  1. per potersi considerare effettivamente discontinui e/o intermittenti i periodi di lavoro, anche se di durata significativa, dovranno necessariamente essere intervallati da una o più interruzioni tali da non far coincidere le prestazioni di lavoro con la durata del contratto.
  2. la definizione dei periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno deve necessariamente essere definita dalla contrattazione collettiva, di contro una individuazione demandata al contratto individuale di lavoro delegittimerebbe i requisiti oggettivi e soggettivi codificati nel testo di legge e posti come limiti di utilizzo dell’istituto.
  3. Per i soggetti con più di 55 anni di età, la citata circolare evidenzia come si tratti di soggetti con almeno 55 anni di età, anche pensionati.
  4. Per i soggetti con meno di 24 anni invece le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro i 25 anni compiuti quindi fino al massimo a 24 anni e 364 giorni.

Da quanto sopra discende che è sempre possibile ricorrere al contratto job on call rispettando i requisiti di età del lavoratore o, nel caso in cui questi manchino, facendo riferimento al contratto collettivo o alle attività discontinue elencate nel Rd 2657/1923.

Il contratto di lavoro in argomento, per il quale è prevista la forma scritta ai fini della prova, può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato e può prevedere ai sensi dell’art. 16 una specifica indennità di disponibilità. Tale indennità per espressa previsione di legge è esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo, ed è assoggettata a contribuzione previdenziale per il suo effettivo ammontare, in deroga alla normativa in materia di minimale contributivo.

Divieti all’utilizzo

Secondo quanto disposto dall’art. 14 è vietato il ricorso al lavoro intermittente:

  1. a) per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
  2. b) presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi a norma degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente, ovvero presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente;
  3. c) ai datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Limiti

Il DL 76/2013 (“decreto lavoro”), ha introdotto, modificando il precedente testo di legge (il Dlgs 276/03) il limite di 400 giornate lavorate nell’arco di un triennio solare per i lavoratori occupati con tale tipologia contrattuale. Tale limite è stato integralmente trasfuso nel comma 3 dell’art. 13. Quindi ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore (nel rispetto dei requisiti soggettivi e oggettivi sopra indicati) con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari.

Il triennio solare va calcolato secondo quanto disposto dalla circolare 35/2013 del MLPS a partire dal giorno in cui si chiede la prestazione, a ritroso di tre anni; tale conteggio tuttavia, secondo quanto previsto dal D.L. n. 76/2013, dovrà tenere conto solo delle giornate di effettivo lavoro “prestate successivamente all’entrata in vigore della presente disposizione” e quindi prestate successivamente al 28 giugno 2013.

Obblighi di Comunicazione

Il datore di lavoro è tenuto a comunicare in via telematica ogni chiamata del lavoratore, secondo le modalità definite dal decreto interministeriale del 27 marzo 2013 e dalla successiva circolare 27 giugno 2013.

Occorre precisare che tale comunicazione non sostituisce in alcun modo la comunicazione preventiva di assunzione, effettuata secondo quanto previsto dal DM 30 ottobre 2007, ma costituisce un ulteriore adempimento, previsto dal citato articolo 1, comma 21, lettera b) della legge 28 giugno 2012, n. 92

La comunicazione deve essere effettuata esclusivamente:

  • Attraverso il servizio informatico registrandosi sul portale cliclavoro.gov.it
  • Via email, dopo aver scaricato il modello UNI intermittente, all’indirizzo PEC intermittenti@pec.lavoro.gov.it
  • Tramite l’App Lavoro Intermittente.

Così come indicato sul sito cliclavoro alla pagina  di seguito specificata https://www.cliclavoro.gov.it/Aziende/Adempimenti/Pagine/Lavoro-Intermittente.aspx

Per utilizzare la casella di posta, non è necessario che l’indirizzo e-mail del mittente sia un indirizzo di posta elettronica certificata, poiché è stata abilitata a ricevere comunicazioni anche da indirizzi di posta non certificata.

È prevista, inoltre, la modalità di invio tramite SMS esclusivamente in caso di prestazione da rendersi non oltre le 12 ore dalla comunicazione.

L’invio tramite sms potrà essere utilizzato solo dalle aziende registrate al Portale Cliclavoro e abilitate all’utilizzo del lavoro intermittente. L’SMS deve contenere almeno il codice fiscale del lavoratore. Il numero al quale inviare la comunicazione è 3399942256.

In caso di malfunzionamento dei sistemi di trasmissione informatici, è possibile effettuare la comunicazione al numero fax dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ex DTL) competente, ma il datore di lavoro dovrà conservare la copia del fax unitamente alla ricevuta di malfunzionamento rilasciata direttamente dal servizio informatico come prova dell’adempimento dell’obbligo.

L’omessa comunicazione prima dell’inizio della prestazione lavorativa (secondo il MLPS può avvenire anche il giorno stesso della prestazione, ma assolutamente prima dell’inizio della stessa) o di un ciclo integrato di prestazioni non superiore a trenta giorni e della durata della stessa (data di inizio e fine della prestazione) comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione. Per  espressa previsione di legge ala sanzione in esame non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124. Pertanto la sanzione contestata ai sensi dell’art. 16 L 689/1981 sarà pari a 800 € (la misura più favorevole tra il doppio del minimo e 1/3 del massimo) per ciascun lavoratore interessato.

 

 

 

 

Considerazioni generali

A parere dello scrivente con le modifiche che hanno interessato le prestazioni occasionali (PrestO e Libretto di Famiglia) il contratto a chiamata è tornato a essere forse lo strumento più funzionale per la copertura di quelle prestazioni temporanee atte a soddisfare legittimamente esigenze di copertura di picchi produttivi. Dopo la riforma della Legge Fornero l’istituto in esame aveva subito un progressivo declino in favore proprio dei cosiddetti Voucher, anche ingiustificatamente trattandosi comunque di istituti nati per rispondere a differenti domande del mercato del lavoro[1]. Oggi il job on call offre quella copertura contrattuale e garantisce una adeguata flessibilità delle esigenze imprenditoriali, nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi e limiti di utilizzo.

La normativa non prevede alcun limite giornaliero di orario di lavoro: quindi, con il consenso del lavoratore, la prestazione può essere resa per le ore reciprocamente concordate. Per il settore edile invece, pur non essendovi un diverso limite orario, trattandosi di lavorazioni di cantiere si ritiene che cautelativamente sarebbe più opportuno prevedere prestazioni a chiamata per la giornate intera di 8 ore. Più avanti tratterò gli aspetti contributivi riferendomi alla circolare INPS 17/2006.

Non soggiace ai limiti percentuali previsti per il contratto a tempo determinato, né ai vincoli previsti per lo stesso nelle relative proroghe o rinnovi.

Alla luce delle considerazioni sopra esposte non si riscontra nessun vincolo all’utilizzo di tale istituto nel settore dell’Edilizia, dove il CCNL non ha previsto una regolamentazione dell’Istituto, mentre ha disciplinato stingenti limiti all’utilizzo dei contratti Part Time e a Tempo Determinato, benché quest’ultimi rimangono estesi a una platea più ampia di lavoratori potenziali. Per quanto attiene ai contratti part time il CCNL edilizia industria prevede  che l’impresa non può assumere operai a tempo parziale per una percentuale superiore al 3% del totale dei lavoratori occupati a tempo indeterminato. Resta ferma la possibilità di impiegare almeno un operaio, sempreché non ecceda il 30% degli operai a tempo pieno[2]. Il superamento di tali limiti conduce al recupero della cosiddetta contribuzione virtuale  art. 29 L 244/1995[3]. Per quanto attiene alle limitazioni del tempo determinato il CCNL Edilizia Industria, nei termini del quadro normativo, ha previsto l’estensione e la modificazione del limite legale. Pertanto, il ricorso al contratto a termine non può superare, mediamente nell’anno civile, cumulativamente con i contratti di somministrazione a tempo determinato, il 25% dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato dell’impresa. Un ulteriore 15% di assunzioni con contratto a termine potrà essere effettuato esclusivamente con riferimento ai lavoratori iscritti in BLEN.IT. Resta ferma in ogni caso la possibilità di utilizzare almeno 7 rapporti di lavoro con contratto a termine/somministrazione a tempo determinato, comunque non eccedenti la misura di 1/3 del numero di lavoratori a tempo indeterminato dell’impresa[4].

Pur con le accortezze del caso quindi, i limiti del ricorso al Job on Call sono, esclusivamente, quelli delineati dalla legge e sopra esaminati. Ovvero i requisiti soggettivi; lavoratori con almeno 55 anni di età, anche pensionati, e ragazzi le cui prestazioni siano concluse entro i 24 anni (fino a 23 anni e 364 giorni). Inoltre, facendo riferimento al Regio Decreto 2657/1923, a prescindere dai requisiti soggettivi il contratto a chiamata potrà essere stipulato per prestazioni intermittenti di personale addetto alle Gru (punto 30 del citato Regio Decreto).

Non sembrano, infatti, rilevabili all’interno del Regio Decreto altre figure assimilabile a personale edile o affine attivo in cantiere.

Disciplina previdenziale del rapporto di lavoro intermittente

Al contratto di lavoro intermittente si applica, per quanto compatibile, la disciplina prevista per il rapporto di lavoro subordinato, limitatamente ai periodi nei quali il lavoratore si trova a svolgere effettivamente la prestazione di lavoro che è oggetto del contratto. Ciò è quanto si evidenzia nella circolare 17/2006 dell’INPS. Sussiste anche un principio di non discriminazione del lavoratore intermittente rispetto al lavoratore ordinario. Pertanto, trovano applicazione le disposizioni in materia di minimale contrattuale e giornaliero di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 389 del 1989 e all’art. 7, comma 1, secondo periodo, della legge n. 638/1983, a parità di orario di lavoro svolto.

Per quanto attiene il settore edile ciò si traduce nella completa applicazione delle maggiorazioni e accantonamenti alla Cassa Edile che concorrono alla base imponibile previdenziale.

Il comma 2 dell’art. 17 D.Lgs 81/2015 prevede che il trattamento economico, normativo e previdenziale del lavoratore intermittente, è riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita, in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia e infortunio, congedo di maternità e parentale. La citata circolare INPS evidenzia che “il trattamento previdenziale, il proporzionamento in questione si deve effettuare dividendo l’importo della retribuzione da prendere a riferimento ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 389/1989 e/o dell’articolo 7, comma 1, secondo periodo, della legge n. 638 del 1983 (che determinano rispettivamente il minimale contrattuale e giornaliero di retribuzione imponibile ai fini previdenziali) per le ore di lavoro corrispondenti nello stesso periodo. Ne deriverà l’individuazione di un valore retributivo orario, costituente un mero parametro di calcolo, che dovrà essere poi moltiplicato per le ore di lavoro effettivamente svolte dal lavoratore nello stesso periodo, al fine di individuare la retribuzione da prendere in riferimento ai fini dell’adempimento degli obblighi previdenziali”.

Nei periodi di disponibilità e per tutto il periodo in cui il lavoratore intermittente è in disponibilità, in carenza di una prestazione di lavoro, non è titolare di alcun diritto tra quelli riconosciuti ai lavoratori subordinati e non matura alcun trattamento economico e normativo, salva l’indennità di disponibilità che gli è dovuta quale corrispettivo della espressa pattuizione contenuta nel contratto di lavoro intermittente.

La misura della predetta indennità è stabilita dai contratti collettivi e comunque non può essere inferiore a quella prevista, ovvero periodicamente aggiornata, con decreto del Ministero del lavoro. Il D.M. 10.3.2004, pubblicato in G.U. 22.3.2004, n. 68, ha stabilito in proposito un importo non inferiore al 20 per cento della retribuzione prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato, precisando gli elementi che a tale fine devono essere presi a riferimento, ossia minimo tabellare, indennità di contingenza, Edr, ratei di mensilità aggiuntive.

Le somme corrisposte a titolo di indennità di disponibilità sono soggette a contribuzione obbligatoria sia ai fini IVS che ai fini delle prestazioni di malattia e maternità. L’indennità è espressamente esclusa dal computo di ogni istituto di legge o di contratto collettivo.

 

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

 

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

 

[1] Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione III trimestre 2017 Il numero di lavoratori a chiamata o intermittenti (Inps-Uniemens) nel terzo trimestre 2017 mostra una nuova forte crescita (+77,9%; Figura 6) iniziata dal secondo  trimestre (+75,6%), soprattutto a seguito dell’abrogazione del lavoro accessorio.

[2] In merito la contrattazione di settore prevede delle specifiche esenzioni dai limiti quantitativi; i contratti a part-time stipulati con personale impiegatizio; con personale operaio non adibito alla produzione ad esclusione degli autisti; con personale operaio di 4° livello;  con personale operaio occupato in lavori di restauro ed archeologici; con personale operaio che usufruisca di trattamento pensionistico; nonché le trasformazioni del rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time motivate da gravi e comprovati problemi di salute del richiedente, ovvero da necessità di assistenza del coniuge o dei parenti di 1° grado per malattia o condizioni di disabilità che richiedano assistenza continua;

[3] In merito si veda la sentenza del Tribunale, Reggio Calabria, sez. lavoro, sentenza 24/03/2015 su retribuzione virtuale inapplicabile ai contratti part time.

[4] In merito ai limiti percentuali è opportuno rilevare che l’art. 23 al comma 2 prevede delle esenzioni tra le quali, a titolo esemplificativo e non esaustivo, vi rientrano le assunzioni in sostituzione di lavoratori assenti e le assunzioni di lavoratori con  età superiore ai 50 anni ( co. 2 art. 23 D.lgs 81/2015).

Ultime Sentenze Corte di Cassazione- Quarta sezione Lavoro

14/01/2018
Sentenza n. 28250 del 27/11/2017 Impiego pubblico

Personale insegnante – Trasformazione graduatorie – Aggiornamenti – Mantenimento punteggio già maturato – Sussistenza.

Inserito il: 28/11/2017

 

Ordinanza interlocutoria n. 28110 del 24/11/2017 Previdenza sociale

LAVORATORI AGRICOLI A TEMPO INDETERMINATO – INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE – TRATTAMENTO RISERVATO AGLI ALTRI LAVORATORI A TEMPO INDETERMINATO – DISPARITÀ DI TRATTAMENTO – QUESTIONE DI COSTITUZIONALITÀ – NON MANIFESTA INFONDATEZZA E RILEVANZA.

Inserito il: 24/11/2017

 

Ordinanza interlocutoria n. 26768 del 13/11/2017 Previdenza

Sgravi contributivi integranti aiuti di Stato – Datori di lavoro esercenti attività di trasporto pubblico locale – Decisione della Commissione europea n. 2000/128/CE dell’11 maggio 1999 – Applicabilità – Pregiudiziale comunitaria.

Inserito il: 13/11/2017

 

Ordinanza interlocutoria n. 24766 del 19/10/2017 Licenziamenti

RECESSO DURANTE LA MALATTIA – SUPERAMENTO COMPORTO – NULLITÀ O INEFFICACIA – CONTRASTO.

Inserito il: 19/10/2017

http://www.cortedicassazione.it/corte-di-cassazione/it/quarta_sezione_lavoro.page

IL RIPOSO GIORNALIERO

13/12/2017

di Gabriele D’Intino [*]

 

Sotto il profilo organizzativo spetta al datore di lavoro regolamentare la distribuzione giornaliera e settimanale dell’orario di lavoro, nel rispetto dei limiti fissati dalla legge e dal contratto collettivo.

Il diritto positivo ammette qualsiasi accordo tra datore e lavoratore in merito all’articolazione dell’orario di lavoro, a condizione che siano rispettati i limiti di durata. Tuttavia, nella prassi i criteri di articolazione della prestazione lavorativa vengono stabiliti dalla contrattazione collettiva, che fissa la durata settimanale e il tipo di articolazione da praticare.

Uno dei limiti posti dal legislatore attiene alla durata minima del riposo da concedere al lavoratore subordinato nell’arco di una giornata lavorativa.

Per trattare in maniera compiuta l’argomento, bisogna individuare esattamente il concetto di orario di lavoro dal quale si può ricavare, per converso, il concetto di “periodo di riposo”.

L’art.1, co.2, lett. a), del D.Lgs.n.66/03, stabilisce che per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. La successiva lettera b) precisa che per periodo di riposo si intende “qualsiasi periodo che non rientri nell’orario di lavoro”.

I limiti posti dal legislatore sono volti ovviamente al contemperamento delle esigenze produttive con quelle di natura socio-sanitarie orientate alla tutela psico-fisica del lavoratore e permettergli una vita libera e dignitosa [1].

I profili inerenti l’organizzazione dell’orario di lavoro sono regolati nel nostro ordinamento dal D. Lgs. n. 66/2003 [2], in attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE; tale norma ha una portata di ambito generale ma non universale, come meglio si dirà in seguito.

L’art. 7 del citato decreto dispone che “Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata [3].

In proposito, la Circolare n. 8/2005 del MLPS, chiarisce che il periodo di riposo va calcolato dall’ora di inizio della prestazione lavorativa, rimanendo fissato in 40 ore la durata del normale orario di lavoro settimanale ovvero nel minor valore individuato dalla disciplina pattizia.

All’atto pratico, il lavoratore deve usufruire di un periodo di riposo consecutivo di 11 ore per ogni arco di tempo pari a 24 ore, considerate dall’inizio della prestazione lavorativa, salvo i casi di deroghe previste di cui si parlerà in seguito. In altre parole, il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo ogni giorno, tra la fine del turno e l’inizio di quello successivo, e di ulteriori 24 ore di riposo (per un totale di 35 ore complessive) in occasione del riposo settimanale [4] .

Interpretando al “contrario”  la previsione dell’art. 7 possiamo desumere il limite orario giornaliero pari a 13 ore, compreso le pause (vedi infra), soddisfacendo, in tal modo, il principio sancito dalla Carta Costituzionale all’art. 36, comma 2.

Esempio tipico dell’omessa concessione del riposo giornaliero si configura allorquando il prestatore che osserva un’articolazione oraria su  tre turni, dalle 6,00 alle 14,00, dalle 14,00 alle 22,00 e dalle 22,00 alle 6,00, per 05 gg. a settimana dal lunedì al venerdì, dopo aver effettuato il secondo turno per l’intera settimana (14,00 alle 22,00) si reca il sabato mattina a lavoro per effettuare straordinario dalle ore 8,00 alle 14,00, riposando solo per n. 10 ore.  Altro esempio tipico si verifica quando la prestazione lavorativa si protrae per oltre 13 ore, residuando un arco di tempo inferiore alle 11 ore fino al raggiungimento della ventiquattresima ora dall’inizio della prestazione lavorativa.

Nel periodo di riposo non si computano i riposi intermedi nonché le pause di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesto alcun tipo di prestazione lavorativa in quanto non si tratta di un periodo di riposo continuativo. Questi periodi non rientrano nell’orario di lavoro né nel periodo di riposo (così testualmente Min. Lav., circ. 3.3.2005, n. 8).

Lavoro frazionato e reperibilità

Il secondo periodo del comma primo dell’art. 7 D. Lgs. n. 66/2003, nell’attuale formulazione introdotta dalla L. n. 133/2008, fa salve le “attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”, in ordine alla consecutività del riposo giornaliero.

Per attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati si devono intendere:

1) le attività di ristorazione e le attività di pulizie, compresa la pulizia e il riassetto delle camere d’albergo (Min. Lav., circ. 29.9.2010, n. 34);

2) il cosiddetto “turno spezzato” (fermo l’obbligo di rispettare la durata dell’orario giornaliero), tipico del settore Turismo (Min. Lav., circ. 29.9.2010, n. 34);

3) le attività lavorative rese nell’ambito del lavoro a distanza o telelavoro (Min. Lav., nota 29.5.2008, n. 13);

4) le attività svolte in regime di reperibilità (Interpello MLPS n. 13/2008 del 29 maggio 2008).

Mentre, la reperibilità è un istituto che prevede la disponibilità del prestatore alla chiamata del datore di lavoro in caso di necessità lavorativa.

Come ribadito dalla giurisprudenza, anche a livello comunitario dalla Corte di Giustizia CE, Sentenza 3 ottobre 2000, n. 303, il servizio di mera reperibilità non rientra nell’orario di lavoro se non per il tempo in cui comporta l’effettiva prestazione lavorativa (si veda anche Cass. 15 maggio 2013 n. 11727; Cass. 28 giugno 2011, n. 14288; Cass. 19 novembre 2008 n. 27477; Cass. 7 giugno 1995 n. 6400).

Per entrambi i casi la contrattazione collettiva può legittimamente prevedere deroghe alla consecutività del riposo, come nel caso del CCNL Turismo che, in attuazione dell’art. 17, comma 1, del D. Lgs. n. 66/2003 (si veda sistema derogatorio), ha stabilito che in caso di attività di lavoro organizzate a turni settimanali o plurisettimanali, ogni volta che il lavoratore cambi squadra e non possa fruire, tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di quello della squadra successiva, del periodo di riposo giornaliero, lo stesso potrà essere fruito in forma frazionata, fermo restando il divieto della consecutività dei due turni.

A tal proposito, le considerazioni fornite dal MLPS, con Interpello n. 13/2008, riguardo all’interruzione del riposo giornaliero o settimanale per prestazioni da rendere in regime di reperibilità, con obbligo di far decorrere “nuovamente dalla cessazione della prestazione lavorativa, rimanendo escluso il computo di ore eventualmente già fruite”,  sono da riferirsi esclusivamente al riposo settimanale, in conformità di quanto chiarito dalla Corte Costituzionale.

Connessioni con le pause e i riposi settimanali

Come già in parte evidenziato, l’istituto del riposo giornaliero ha inevitabili connessioni con le pause, disciplinate nel successivo articolo 8 e con il riposo settimanale, contemplato nell’articolo 9 del decreto in commento.

Dal testo letterale dell’art. 8 si evince che “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa (..) di durata non inferiore a dieci minuti”; conseguentemente, la prestazione giornaliera, in definitiva, si potrà protrarre al massimo per 12 ore e 50 minuti.

Il relazione, invece, al cumulo fra riposo giornaliero e riposo settimanale [5], il MLPS, con Interpello n. 30/2007, ha confermato quanto già puntualizzato con circolare n. 8 dello stesso Dicastero, circa la sussistenza della fattispecie sanzionatoria in tutte le situazioni in cui, pur concedendo il riposo di 24 ore consecutive, il datore di lavoro non consenta il cumulo con il riposo giornaliero e cioè non conceda le 35 ore di riposo complessive. E’ stato precisato, altresì, che vi sono le eccezioni previste dall’art. 9, comma 2, lett. a), b) e c) e che legittimamente possono intervenire deroghe da parte della contrattazione collettiva, come previsto dalla successiva lett. d) dello stesso comma, “a condizione che la concreta soluzione organizzativa individuata dall’azienda consenta di evitare la deroga anche al principio di non sovrapponibilità (o “infungibilità”) dei due riposi. In tale ultimo caso, difatti, l’interpretazione della norma verrebbe a confliggere con quella fornita dalla Corte Costituzionale in materia di infungibilità tra le diverse tipologie di riposi (Corte Cost. 28 aprile 1976, n. 102)”. Infine, è stato precisato che “non può, dunque, ritenersi esteso al periodo di 35 ore il vincolo della consecutività (inderogabile) applicabile al singolo riposo settimanale di 24 ore”.

Esclusioni

Le disposizioni contenute nel D. Lgs. 66/2003 si applicano alla generalità dei lavoratori assunti con contratto di natura subordinata, ivi compresi gli apprendisti maggiorenni, occupati in tutti i settori di attività pubblici e privati.

Tuttavia, dal combinato disposto dell’art. 2 e dell’art. 17, comma 5, dello stesso decreto, possiamo ricavare le tipologie di lavoratori che sono esclusi dall’applicazione delle disposizioni in tema di riposo giornaliero.

Infatti, l’art. 2 stabilisce l’esclusione assoluta da tutti gli istituti regolati dallo stesso decreto, con rimando alla normativa specifica, per i settori di seguito indicati:

-lavoro della gente di mare (Direttiva 1999/63/CE);

-personale di volo nell’aviazione civile (Direttiva 2000/79/CE);

-lavoratori mobili per quanto attiene ai profili di cui alla direttiva 2002/15/CE;

-personale della scuola;

-personale delle Forze di polizia  e delle Forze armate;

-agli addetti del servizio di polizia municipale e provinciale;

-addetti ai servizi di vigilanza privata (a seguito del D.L. n.112/08).

Mentre, nell’art. 17, comma 5, si fa esplicito riferimento all’esclusione dall’ambito di applicazione delle disposizioni di cui all’art. 7, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, per i prestatori la cui durata dell’orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta:

  1. a) di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo;
  2. b) di manodopera familiare;
  3. c) di lavoratori nel settore liturgico delle chiese e delle comunità religiose;
  4. d) di prestazioni rese nell’ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro.

Infine, l’art. 2, comma 2, della disposizione normativa in esame, nei riguardi dei servizi di protezione civile, ivi compresi quelli del corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché nell’ambito delle strutture giudiziarie, penitenziarie e di quelle destinate per finalità istituzionali alle attività degli organi con compiti in materia di ordine e sicurezza pubblica, delle biblioteche, dei musei e delle aree archeologiche dello Stato, prevede l’esclusione dell’ambito di applicazione in presenza di particolari esigenze inerenti al servizio espletato o di ragioni connesse ai servizi di protezione civile nonché degli altri servizi espletati dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, così come individuate con decreto del Ministro competente, di concerto con i Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali, della Salute, dell’Economia e delle Finanze e per la Funzione Pubblica, da emanarsi entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo.

Sistema derogatorio

L’art. 17 del D. Lgs. n. 66/2003 si occupa del sistema derogatorio in materia di riposo giornaliero attribuendo un ruolo centrale alla disciplina pattizia e, in mancanza, un potere di intervento in capo al MLPS.

Il primo comma dell’art. 17 stabilisce che le disposizioni in materia di riposo giornaliero possono essere derogate mediante contratti collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Per il settore privato, in assenza di specifiche disposizioni nei CCNL le deroghe possono essere stabilite nei contratti collettivi territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Se la deroga è stata prevista già dal contratto collettivo nazionale di categoria, essa è immediatamente operativa, senza che vi sia alcuna necessità di una conferma ovvero della fissazione di una disciplina di dettaglio da parte della contrattazione di secondo livello (Min. Lav., nota 15.5.2009, n. 36).

Al riguardo giova rammentare che il menzionato decreto legislativo è stato emanato in attuazione della direttiva 23 novembre 1993, n. 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, successivamente sostituito dalla Direttiva 4 novembre 2003, n. 2003/88/CE, che stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. Quest’ultima Direttiva all’art. 3, in materia di riposo giornaliero, ribadisce agli Stati membri che adottino le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici, nel corso di ogni periodo di 24 ore, di un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive. Al successivo art. 17, comma 2^,  la medesima Direttiva precisa che le deroghe in materia di riposo giornaliero possono essere adottate con legge, regolamento o con provvedimento amministrativo, ovvero mediante contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, a condizione che vengano concessi ai lavoratori interessati equivalenti periodi di riposo compensativo oppure, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per ragioni oggettive, a condizione che venga loro concessa una protezione  appropriata. In tale direzione si è mossa anche la Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza del 9 settembre 2003 (causa C-151/02, caso 3 Jaeger), che ha stabilito, riguardo ai periodi equivalenti di riposo compensativo, che “devono essere immediatamente successivi all’orario di lavoro che sono intesi a compensare, al fine di evitare uno stato di fatica o sovraccarico del lavoratore dovuti all’accumulo di periodo di lavoro consecutivi”.

Mentre, la stessa disposizione al comma 2 stabilisce che in mancanza di disciplina collettiva, il Ministero del lavoro, su richiesta delle OO.SS. nazionali di categoria comparativamente più rappresentative o delle associazioni nazionali di categoria dei datori di lavoro firmatarie dei CCNL, può adottare un decreto, per stabilire deroghe con riferimento:

  1. a) alle attività caratterizzate dalla distanza fra il luogo di lavoro e il luogo di residenza del lavoratore, compreso il lavoro offshore, oppure dalla distanza fra i suoi diversi luoghi di lavoro;
  2. b) alle attività di guardia, sorveglianza e permanenza caratterizzate dalla necessità dì assicurare la protezione dei beni e delle persone, in particolare, quando sì tratta di guardiani o portinai o di imprese di sorveglianza;
  3. c) alle attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta: di servizi relativi all’accettazione, al trattamento o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri; del personale portuale o aeroportuale; di servizi della stampa, radiofonici, televisivi, di produzione cinematografica, postali o delle telecomunicazioni, di servizi di ambulanza, antincendio o di protezione civile; di servizi di produzione, di conduzione e distribuzione del gas, dell’acqua e dell’elettricità, di servizi di raccolta dei rifiuti domestici o degli impianti di incenerimento; di industrie in cui il lavoro non può essere interrotto per ragioni tecniche; di attività di ricerca e sviluppo; dell’agricoltura; di lavoratori operanti nei servizi regolari di trasporto passeggeri in ambito urbano;
  4. d) in caso di sovraccarico prevedibile di attività, e in particolare: nell’agricoltura; nel turismo; nei servizi postali;
  5. e) per personale che lavora nei settore dei trasporti ferroviari: per le attività discontinue; per il servizio prestato a bordo dei treni; per le attività connesse al trasporto ferroviario e che assicurano la regolarità del traffico ferroviario;
  6. f) a fatti dovuti a circostanze estranee al datore di lavoro, eccezionali e imprevedibili o eventi eccezionali, le conseguenze dei quali sarebbero state comunque inevitabili malgrado la diligenza osservata;
  7. g) in caso di incidente o di rischio di incidente imminente.

Alle stesse condizioni di cui sopra, si può derogare alla disciplina di cui all’articolo 7: a) per l’attività di lavoro a turni tutte le volte in cui il lavoratore cambia squadra e non può usufruire tra la fine del servizio di una squadra e l’inizio di quello della squadra successiva di periodi di riposo giornaliero; b) per le attività caratterizzate da periodo di lavoro frazionati durante la giornata, in particolare del personale addetto alle attività dì pulizie (art. 17, co. 3, D. Lgs. 8.4.2003, n. 66).

In tutti i casi sopra richiamati le deroghe sono ammesse solo a condizione che ai lavoratori siano accordati periodi equivalenti di riposo compensativo o, in casi eccezionali in cui la concessione di tali periodi equivalenti di riposo compensativo non sia possibile per motivi oggettivi, a condizione che ai lavoratori interessati sia accordata una protezione appropriata (art. 17, co. 4, D. Lgs. 8.4.2003, n. 66).

Personale di ruolo del Servizio sanitario nazionale

Un cenno particolare merita il personale delle aree dirigenziali e del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, alla luce di una recente risposta ad interpello da parte del MLPS circa l’applicabilità delle disposizioni in materia di orario di lavoro ai prestatori del settore della sanità privata[6].

In ordine ai profili organizzativi concernenti l’orario di lavoro e la disciplina dei riposi, va evidenziato che l’art. 17, comma 6-bis, del D. Lgs. n. 66/2003, così come introdotto dall’art. 3, comma 85, della L. 24/12/2007, n. 244, a decorrere dal 01/01/2008, prevedeva che le disposizioni di cui all’art.7 del medesimo decreto in tema di riposo giornaliero non si applicavano al personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, per il quale si faceva riferimento alle vigenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, nel rispetto dei principi generali di protezione della sicurezza dei lavoratori.

A seguito di Procedura di infrazione n. 2011/4185, inoltrata dall’Unione Europea nei confronti dello Stato italiano, proprio in materia di orario di lavoro del personale di ruolo del SSN, il legislatore ha posto rimedio alla violazione della normativa comunitaria con l’art. 14 della L. n. 161/2014, che ha previsto l’abrogazione del citato comma 6-bis con decorrenza dal 25/11/2015. In tal modo, è stata reintrodotta l’applicabilità delle disposizioni previgenti in materia anche per il personale del comparto sanità pubblica e, conseguentemente,  il c.d. “obbligo di garanzia” di cui al comma 4^ del richiamato art. 17 del D.Lgs. n. 66/2003, in caso di previsione -da parte della contrattazione collettiva- di deroghe alla disciplina del riposo giornaliero, così come accade per tutti gli altri settori lavorativi.

Personale addetto ai servizi di vigilanza privata

A seguito della novella introdotta dalla L. n. 133/2008 il personale addetto a tali servizi è escluso dall’ambito di applicazione dei profili organizzativi legati alla disciplina dell’orario di lavoro di cui al decreto in commento. A riguardo, il D. M. 27/4/2006 in materia di orario di lavoro delle guardie particolari giurate, stabilisce la deroga in tema di organizzazione e gestione flessibile dell’orario di lavoro al fine del perseguimento delle preminenti esigenze di sicurezza, attribuendo alla contrattazione collettiva la prerogativa di fissare i limiti necessari della prestazione lavorativa giornaliera, notturna e straordinaria nel rispetto della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nonché le deroghe in materia di pause e riposi giornalieri (si veda in proposito Interpello MLPS n. 20/2009 del 20/3/2009).

Pluralità di rapporti di lavoro

Nel nostro ordinamento non è contemplato alcun divieto di cumulo tra più rapporti contrattuali di lavoro nel settore privato. Anche nel caso di pluralità di rapporti in capo allo stesso prestatore, sussiste l’obbligo del rispetto dell’art. 7 del D. Lgs. n. 66/2003 in materia di riposo giornaliero di undici ore nell’arco delle 24, previsto a tutela della salute e dell’integrità psicofisica del lavoratore (Min. Lav., nota 16.6.2008, n. 19).

Ai fini della fruizione del riposo, il lavoratore ha l’onere di comunicare ai datori di lavoro l’ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività nel rispetto dei limiti indicati e fornire ogni altra informazione utile in tal senso (Min. Lav., circ. 3.3.2005, n. 8).

Il personale viaggiante

Le attività di trasporto – se prevalenti sul resto delle attività svolte dall’azienda – rientrano nelle fattispecie disciplinate dalla direttiva 2002/15/CE recepita con il D. Lgs. 234/2007, in materia di lavoratori mobili e non sono soggette alla disciplina dell’orario di lavoro (art. 2 D. Lgs. 8.4.2003, n. 66), compresa quella dei riposi giornalieri, settimanali e delle pause (art. 17, co. 6, D. Lgs. 8.4.2003, n. 66); nel caso inverso in cui il datore di lavoro valuti come prevalenti le altre attività lavorative, diverse da quella di trasporto, i lavoratori interessati beneficiano di tutte le tutele del D. Lgs. 8.4.2003, n. 66; qualora il datore di lavoro non sia in grado di individuare l’attività prevalente, dovrà applicare la disciplina di maggior tutela per il lavoratore (Min. lav., nota 20.3.2009, n. 27).

Il sistema sanzionatorio

Nelle ipotesi in cui il datore di lavoro ometta di concedere il prescritto riposo giornaliero, di cui al più volte richiamato art. 7 del D. Lgs. n. 66/2003, soggiace ad una sanzione amministrativa pecuniaria non diffidabile.

In materia si è assistito ad una serie di interventi del legislatore nel corso degli anni, a riprova dell’importanza riservata alla tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore e alla necessità di reintegrare le sue energie. Si pensi alla sospensione dell’attività imprenditoriale che era prevista in passato nei casi di sistematica violazione del riposo giornaliero oppure al D.L. 23.12.2013, n. 145, che aveva previsto l’aumento di 10 volte della sanzione all’epoca in vigore, modificata poi da parte della legge di conversione.

La fonte sanzionatoria si rinviene nell’art. 18-bis del prefato decreto legislativo, inizialmente introdotto dal D. Lgs. n. 213/2004 e di seguito modificato dalla L. n. 133/2008, dalla L. n. 183/2010 e, da ultimo, dall’art. 14, comma 1, lett. c) D.L. 23 dicembre 2013, n.145, convertito, con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2014, n. 9.

L’attuale formulazione, in vigore dal 22.2.2014, contrariamente a quanto previsto in passato, prevede una graduazione delle sanzioni in base al numero dei lavoratori coinvolti ovvero ai periodi di 24 ore per i quali si è verificata la violazione in relazione al singolo lavoratore, con importi raddoppiati rispetto alle previsioni di cui alla L. n. 183/2010 in vigore fino al 21.2.2014, come di seguito specificato.

-Per le violazioni fino a 5 lavoratori o 2 periodi di riferimento per uno stesso prestatore, nella cornice edittale da 100 a 300 Euro con ammissione alla conciliazione amministrativa e, quindi, ridotta ex art. 16, L. n. 689/81 ad Euro 100.

-Per violazioni che coinvolgono più di 5 lavoratori o almeno 3 periodi di riferimento per uno stesso prestatore, nella cornice edittale da 600 a 2.000 Euro con ammissione alla conciliazione amministrativa e, quindi, ridotta ex art. 16, L. n. 689/81 ad Euro 666,67.

-Se la violazione si riferisce a più di 10 lavoratori o almeno 5 periodi di riferimento per uno stesso prestatore, nella cornice edittale da 1.800 a 3.000 Euro e non è ammesso il pagamento in misura ridotta ex art. 16, L. n. 689/81, pertanto l’autorità competente, qualora ritenga fondato l’accertamento, determina, con ordinanza motivata, le somme dovute per la violazione e ne ingiunge il pagamento.

In caso di mancata concessione del riposo a una pluralità di lavoratori non può parlarsi di violazione commessa con un’unica azione od omissione e non può dunque trovare applicazione il beneficio del cumulo giuridico previsto dall’art. 8 della legge n. 689/1981 (Trib. Milano 26.11.2009).

E’ ammessa, mediante successivo provvedimento di ordinanza ingiunzione, la rideterminazione dell’importo sanzionatorio, già quantificato ai sensi dell’art. 16, L. n. 689/1981, a condizione che dagli atti istruttori emergano elementi atti a configurare l’unicità della condotta illecita a fronte della pluralità di violazioni. A tale riguardo, con riferimento alla fase ispettiva, gli ispettori hanno il dovere di fornire al Direttore gli elementi utili per evidenziare tale unicità d’azione (Min. Lav., nota 19.10.2009, n. 76).

Cause ostative alla verifica della regolarità contributiva

Le violazioni delle disposizioni di cui agli art. 7 e 9 D. Lgs. n. 66/2003, rispettivamente in tema di riposo giornaliero e settimanale, sono cause ostative al rilascio del DURC per un arco di tempo pari a 3 mesi, qualora siano accertati con provvedimenti amministrativi e giurisdizionali definitivi e siano riferiti ad un numero di lavoratori pari al 20% del totale della manodopera regolarmente impiegata (Decreto  interministeriale 30 gennaio 2015).

Sistematica violazione della normativa in materia di orario di lavoro

La sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria e alle ferie, se svolta nell’ambito di un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa, caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, integra uno degli indici di sfruttamento dei lavoratori e può comportare, ove accertata, la configurabilità del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art. 603 bis c.p.).

 

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

 

 

 

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

[1] In primis quanto scolpito nell’art 36, comma 2, della Costituzione, in ordine all’operatività del principio di legalità circa i limiti da apporre alla durata della prestazione lavorativa.

[2] In materia di orario di lavoro si sono verificati molteplici interventi del legislatore, a partire dal Regio decreto-legge 15 marzo 1923, n.692 (convertito nella legge 17 aprile 1925, n.473), successivamente completato dagli artt.2107, 2108 e 2109 c.c., nonché dall’art.36 della Costituzione. A seguito della condanna dell’Italia, ad opera della Corte di Giustizia europea, per l’inosservanza alla direttiva 1993/204/Ce, così come modificata dalla direttiva 2000/34/Ce, lo stesso legislatore è intervenuto in varie battute sulla normativa di riferimento: prima, in tema di orario settimanale con la L.n.196/97, poi, in materia di lavoro straordinario, con la L. n.409/98 e, infine, sul lavoro notturno, con il D.Lgs. n.532/99. In realtà, la piena ottemperanza alle istanze comunitarie è avvenuta solo con il D.Lgs. n.66/03, che ha ridefinito in maniera organica tutta la materia sull’orario di lavoro. Tale disciplina ha recentemente subito delle importanti modifiche ad opera della L.n.133/08, D.L. 23 dicembre 2013, n. 245, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2014, n.9, sia dal punto di vista applicativo sia da un punto di vista sanzionatorio.

[3] Comma così modificato dall’art. 41, comma 4, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.

[4] In questi termini Tribunale di Torino, Sezione Lavoro civile, Sentenza del 31 gennaio 2008, n. 200.

[5]L’articolo 9 del D. Lgs. n.66/03, così come modificato dalla L. n.133/08, stabilisce che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un

periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo

giornaliero di cui all’art.7; il suddetto periodo di riposo consecutivo è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni.

[6]Con Interpello n. 4/2017 del 28/11/2017 il MLPS ha chiarito che la disciplina derogatoria di cui all’art. 17, comma 6-bis del D. Lgs. n. 66/2003, peraltro attualmente abrogata, riguarda esclusivamente il personale appartenente ai ruoli del Servizio sanitario nazionale e non può in alcun modo essere riferita al personale sanitario in servizio presso le strutture private, per il quale trova piena applicazione la disciplina prevista dalla contrattazione di settore, nel rispetto del sistema derogatorio generale.

Distacco dei lavoratori: indici di genuinità e conseguenze di condotte illecite.

04/12/2017

di Gianluigi Pascuzzi [*]

 

Il distacco è uno di quegli istituti per i quali il nostro ordinamento legittima, condizionandolo al rispetto di determinati presupposti, una dissociazione tra datore di lavoro formale (titolare del rapporto di lavoro) e fruitore effettivo della prestazione.

Il D.lgs. n. 276/2003 ha per la prima volta disciplinato tale istituto all’art. 30 (norma integrata e modificata dai D.lgs. n. 251/2004 e D.l. n. 76/2013 convertito in legge n. 99/2013), codificandone i presupposti di legittimità mutuandoli dalla giurisprudenza consolidata.

Se correttamente utilizzato, tale istituto consente la messa a disposizione di alcuni dipendenti a favore di altri soggetti, soddisfacendo molteplici esigenze.

Preme evidenziare che tale atto organizzativo è astrattamente riconducibile alla sfera tecnica, produttiva ed organizzativa del distaccante, quale esercizio del potere datoriale, purché effettivamente esistente. Nel settore edile il ricorso al distacco, oltre che per le motivazioni ordinariamente vigenti, è praticabile per la salvaguardia delle professionalità dei lavoratori (art. 96 CCNL edilizia). Tale disposizione così come attestato dalla nota del Ministero del Lavoro n° 1006 del 11 luglio 2005 non si pone ”…in contraddizione con l’articolo 30 del D.lgs 276 2003, ben potendo rientrare la salvaguardia delle professionalità dei lavoratori distaccati nella più ampia categoria degli interessi economico produttivi di un impresa“.

 

Per espressa previsione dell’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003, si realizza un distacco, quando un datore di lavoro (c.d. distaccante), per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto (c.d. distaccatario) per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.

L’effetto immediato è che viene a definirsi una separazione tra la titolarità del rapporto di lavoro e l’esercizio del potere direttivo e organizzativo.

I presupposti di legittimità del distacco sono essenzialmente due:

1) interesse del distaccante;

2) temporaneità;

ai fini di una effettiva genuinità dell’istituto entrambi devono sussistere simultaneamente.

Dalla lettura della norma si evince inoltre, che i soggetti interessati debbano giocoforza essere due un datore di lavoro (distaccante) titolare del rapporto di lavoro e un datore di lavoro (distaccatario) beneficiario della prestazione. La giurisprudenza ammette che il distacco possa avvenire anche a tempo parziale. Per cui potrebbe legittimamente verificarsi che il lavoratore effettui la propria prestazione, nell’arco della stessa giornata e/o settimana, sia per il distaccate che per il  distaccatario.

L’elemento determinante affinché si possa delineare nettamente il confine tra liceità del distacco e somministrazione di manodopera, è l’interesse del datore di lavoro distaccante (Cass. 16.2.2000, n. 1733).

L’interesse del distaccante, secondo quanto chiarito dalla circolare 28/2005 del Ministero del Lavoro, deve essere “specifico, rilevante, concreto e persistente.”

Con la Circ. 3/2004, il Ministero ha altresì precisato che l’interesse non può consistere in ragioni meramente economiche (un guadagno o un corrispettivo); devono rilevarsi ragioni produttive del distaccante che non coincidano con quello della mera somministrazione di lavoro.

L’interesse del distaccante deve avere carattere oggettivo, deve, quindi, essere apprezzabile all’esterno del rapporto di lavoro, deve permanere per tutta la durata del distacco, può consistere nell’esigenza di formazione di un proprio dipendente, coincidere con il soddisfacimento diretto o indiretto di concrete esigenze inerenti l’impresa distaccante. Considerato che la temporaneità è definibile come un “co-requisito”, l’interesse non può derivare da stabili esigenze produttive ed organizzative dell’impresa distaccante.

Sulla natura dell’interesse il Ministero del Lavoro precisa che questo deve essere riconducibile a oggettive ragioni produttive (Circ. 3/04), ma non deve coincidere con la mera somministrazione di lavoro.

         Un interesse tutelato è stato, altresì, codificato con l’introduzione del comma 4 ter art. 30 del D.lgs 276/03 ad opera del D.l. 28 giugno 2013, n. 76 (in G.U. 28/06/2013, n.150), convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 99 (in G.U. 22/08/2013, n. 196), con l’art. 7, comma 2, lettera 0),  secondo il quale “Qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete”.

Nella prassi è consuetudine che le parti concordino un restituzione degli oneri connessi al trattamento economico del dipendente. Tale indennizzo, ritenuto legittimo dalla giurisprudenza (Cass. Sez. Unite 1751/1989) tuttavia, non può superare quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro distaccante al lavoratore, ossia non potrà superare il costo aziendale sostenuto per il lavoratore distaccato durante il periodo di distacco e difficilmente potrà essere comprensivo di ulteriori oneri (per esempio quelli relativi alle norme sulla sicurezza dei luoghi di lavoro). Diversamente, si ricadrebbe nei casi di illecita somministrazione di manodopera.

L’altro elemento che legittima il distacco è la temporaneità intesa nel senso di non definitività e collegata con la persistenza (per l’intera durata) dell’interesse del datore distaccante.

Il distacco sempre secondo quanto risposto dall’art. 30 del d.lgs. n. 276/2003, prevede il consenso del lavoratore, che è necessario però solo se vi sia un mutamento delle mansioni del dipendente. Laddove invece il distacco non comporti mutamento di mansioni, il datore può disporre unilateralmente il distacco, nell’ambito del suo potere direttivo e organizzativo, e ciò anche se il distacco comporti trasferimento geografico del dipendente.

In merito la norma al comma 3 secondo capoverso ha previsto che quando il distacco comporti un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito, può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

Il CCNL edilizia, invece, prevede che il consenso del lavoratore sia sempre necessario. In merito la sopra citata nota del Ministero del lavoro (n° 1006 del 11/07/2005) rileva che ….”La norma contrattuale, nel prevedere il consenso del lavoratore ai fini del distacco, si configura quale norma di maggior favore rispetto a quanto previsto dall’art. 30 del D. Lgs. 276/03, il quale invece stabilisce che il consenso del personale da distaccare si debba richiedere solo quando il distacco “comporti un mutamento delle mansioni”. La norma contrattuale appare pertanto pienamente compatibile con la previsione di cui all’articolo 30 D.Lgs 276/2003 essendo certamente consentito alle parti stabilire deroghe in melius rispetto alla fonte normativa”.

Il  datore distaccante deve comunicare l’avvenuto distacco entro 5 giorni con il modello UniLav.   Inoltre, seppur gli obblighi assicurativi restano in capo al datore distaccante (Circolari del Ministero del Lavoro n. 3/2004 e n. 28/2005), quest’ultimo deve comunicare (denuncia di variazione ex art. 12 DPR 1124/65) al competente ufficio INAIL i dati necessari per il calcolo del premio (attività e retribuzioni  del lavoratore distaccato, codice fiscale della ditta distaccataria). Potrebbe, infatti, verificarsi la possibilità che le ditte interessate (distaccante e distaccatario) possano essere collocate in gestioni tariffarie e o voci di classificazione del rischio differenti con la conseguente difformità di tasso applicato/applicabile (circolare Inail nr. 39 del 2 agosto 2005). Questo comporterebbe l’applicazione di una sanzione amministrativa (per omessa denuncia di variazione nel termine dei 30 giorni dall’evento) o una sanzione civile qualora vi fosse connessione con gli obblighi assicurativi (ovvero nel caso in cui il tasso applicabile dovesse essere maggiore e generare una richiesta premio).

I rapporti tra le imprese interessate possono essere regolati anche da un formale accordo di distacco, tuttavia non è previsto alcun obbligo benché sarebbe consigliabile la forma scritta, per disciplinare gli accordi economici raggiunti dalle parti.

Come anticipato, durante il distacco avviene una separazione tra la titolarità formale e quella sostanziale del rapporto. La prima rimane in capo al datore distaccante, mentre la seconda viene trasferita in capo al distaccatario. Appare opportuno, tuttavia, rilevare come con il D.l 76/2013, che ha introdotto il comma 4 ter all’art. 30 del D.lgs. n. 276/2003, il Legislatore, oltre a configurare “automaticamente” l’interesse del distaccante al distacco qualora ciò avvenga nell’ambito di un contratto di rete, abbia previsto “la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso” (cir 35/2013 Ministero del Lavoro).

Il distaccante rimane titolare del rapporto di lavoro pertanto ad egli compete il trattamento economico e normativo (art. 30 del D.lgs.n. 27672003); quello contributivo (Circolare del Ministero del lavoro n. 3/2004) e assicurativo (il premio INAIL verrà calcolato sulla base di premi e tariffe applicati al distaccatario). A questi oneri vanno anche aggiunti tutti quelli connessi alla sicurezza e disciplinati dall’art. 3, comma 6, del D.lgs 81/2008, dove è previsto che “…tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, fatto salvo l’obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato”.

 

Da quanto sopra si evidenzia che sarà sicuramente illegittimo il distacco quando l’interesse che il distaccante intenda soddisfare sia unicamente quello di percepire un corrispettivo o anche solo risparmiare sul costo del lavoro, trattandosi in tal caso di attività del tutto coincidente con la somministrazione di manodopera, consentita dallo stesso d.lgs. n.276/2003 solo alle agenzie per il lavoro autorizzate (Ministero del lavoro, Circolare n. 28/2005). Le due fattispecie, infatti, si differenziano proprio per l’elemento dell’interesse funzionale e sostanziale del titolare del rapporto di lavoro: il somministratore infatti realizza il proprio interesse con il fine di lucro, mentre, il distaccante soddisfa un interesse produttivo diversamente qualificato. Altrettanto illecito è il distacco che soddisfi unicamente le esigenze dell’impresa distaccataria.

Conseguenze sanzionatorie del distacco illecito.

Il distacco privo dei requisiti, ed in particolare di quello preminente dell’interesse del distaccante,  snatura nella interposizione illecita da pseudo-distacco, che vede coinvolti, dal punto di vista sanzionatorio, entrambi i soggetti (distaccante e distaccatario) in egual misura.

L’illecito non ha più rilevanza penale in quanto è stato interessato dalle modifiche introdotte con il D.lgs 8/2016, pertanto l’utilizzatore (distaccatario) ed il somministratore (distaccante) sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria pari ad euro 50 per ogni occupato e per ogni giornata di occupazione. La suddetta sanzione, in ogni caso, non può essere inferiore ad euro 5.000,00 né superiore ad euro 50.000,00.

Il D.lgs 08/2016 ha previsto un regime ordinario (quello in esempio disciplinato dagli art. 1 e 6) e un regime applicabile per le condotte consumate fino al 06/02/2016. Se le condotte illecite sono iniziate e cessate prima del 6 febbraio 2016, “…si applicano le disposizioni ex artt. 8 (applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse) e 9 (trasmissione degli atti all’autorità amministrativa (regime intertemporale) (Circolare Ministero del Lavoro 6/2016).

Da quanto sopra consegue che la sanzione amministrativa irrogata ai trasgressori, determinata ai sensi dell’art. 16 della Legge 689/81, non potrà  essere comunque inferiore a euro 1.666,67, né superiore ai 16.666,67, prevedendo invece tutte le ipotesi intermedie, allorquando le giornate (lavoratori) complessivamente contestate e oggetto di distacco illecito risultino comprese tra le 101 e le 999. Nei casi di cui sopra, infatti, la sanzione seguirà le regole generali dovendosi applicare nella misura di 1/3 di 50 € per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione.

La depenalizzazione dell’illecito, pur spostando sul piano amministrativo la condotta, ha  comportato un rilevante inasprimento della pretesa economica dello Stato. Per cui è necessario porre una maggiore attenzione sulla reale opportunità di procedere al distacco, interrogandosi profondamente e onestamente su quale sia il reale interesse che si intende premiare, proprio in considerazione che anche per pochi lavoratori o poche giornate effettivamente prestate la sanzione applicabile non risulterà inferiore ai 5.000,00 (1.666,67 ridotta ai sensi dell’art. 16 L. 689/81).

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

 

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

LO SCAMBIO DI MANODOPERA NEL SETTORE AGRICOLO

28/11/2017
di Gabriele D’Intino [*]

Nel periodo autunnale, con l’intensificarsi delle attività lavorative necessarie per la vendemmia e per la raccolta delle olive, gli operatori del settore agricolo fanno ricorso ai vari strumenti necessari per il reperimento della manodopera idonea a colmare il sopravvenuto fabbisogno.

Fra i vari istituti di provvista del personale merita un cenno particolare lo scambio di manodopera, peculiarità assoluta nel comparto.

L’art. 2139 del c.c. recita testualmente: “Tra piccoli imprenditori agricoli è ammesso lo scambio di manodopera o di servizi secondo gli usi.”

Preliminarmente va chiarito che per piccoli imprenditori agricoli, ai sensi dell’art. 2083 del c.c., si intendono “i coltivatori diretti del fondo….. che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.

A tal proposito, il Ministero del Lavoro, con circolare 24 aprile 1950, n. 14212 aveva precisato che “i piccoli imprenditori coltivatori diretti sono, di massima, gli agricoltori che esercitano le imprese prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della propria famiglia (art. 2083) e che ricorrono al lavoro di estranei soltanto per un molto limitato numero di unità, procurandoselo con lo scambio di prestazioni dei vicini piccoli imprenditori proprietari, affittuari o mezzadri”.

In relazione all’eventuale esistenza di usi locali va detto che le Camere di commercio, tra le proprie competenze in materia di regolazione del mercato, sono tenute, per legge, a rivedere e aggiornare periodicamente la “Raccolta provinciale degli usi”. [1]

Nello specifico, per quanto attiene alla Provincia di Chieti non sono stati individuati usi particolari riferiti alla materia in esame e, quindi, si fa riferimento alla disciplina generale.

Al fine di inquadrare meglio i confini di legalità dell’istituto c.d. della “reciprocanza” occorre  esaminare la prassi vigente e la giurisprudenza formata in materia.

L’INPS, con circolare n. 126 del 16/12/2009, ha chiarito esplicitamente che è ammissibile uno scambio di manodopera qualora:

–  intervenga tra soggetti aventi entrambi la qualifica di coltivatori diretti;

– i soggetti che rendono la prestazione (reciproca) siano: il coltivatore diretto e/o gli eventuali appartenenti al nucleo familiare, se iscritti alla relativa gestione previdenziale;

–  non vi sia alcuna remunerazione o corrispettivo in denaro o in natura espressamente scambiato tra le parti a ristoro della prestazione resa;

–  le prestazioni date e ricevute prescindano da un qualunque calcolo di stretta equivalenza quantitativa e qualitativa;

–  la prestazione attenga esclusivamente ad attività rientranti nello specifico dell’attività agricola, principale o “connessa” che sia.

Nella medesima circolare l’Istituto previdenziale afferma che ”Verificata l’iscrizione nel nucleo coltivatore diretto, il personale ispettivo sarà nella condizione di identificare tra i soggetti trovati intenti al lavoro in azienda quelli che, ancorchè non dipendenti, vi operino legittimamente in forza della disposizione di cui all’art. 2139 c.c.”.

Ulteriormente, il Dicastero del Lavoro, con Interpello n. 6/2011, nel procedere ad una ricostruzione dell’istituto e nel sottolinearne gli aspetti di natura previdenziale e assicurativa che si esplicano allorquando un coltivatore diretto[2] svolge la sua attività sul fondo di un altro coltivatore, gratuitamente ma con l’impegno allo scambio delle prestazioni, con attività da ritenersi collegata al proprio fondo in maniera sostanziale e funzionale, ha ritenuto applicabile l’istituto anche ai mezzadri[3] e ai coloni[4].

Tale stensione vale unicamente per i contratti ancora in essere ex L. n. 756/1964 e L. n. 203/1982, previa verifica della sussistenza della qualità di piccolo imprenditore agricolo in capo a questi ultimi, anche in considerazione della circostanza che tali figure peculiari sono state equiparate, da un punto di vista previdenziale, ai coltivatori diretti ed iscritte nella medesima gestione speciale pensionistica presso l’INPS (Lavoratori Agricoli Autonomi).

Riguardo, invece, alla figura dell’Imprenditore Agricolo Professionale (IAP)[5] la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva chiarisce che potrà, parimenti, scambiare la manodopera nei casi in cui rientri nella nozione di piccolo imprenditore. Pertanto, solo qualora vi sia una partecipazione personale del titolare e dei suoi familiari alle attività dell’impresa agricola si potrà configurare lecitamente quanto previsto dal richiamato art. 2139 del c.c., sempre che si tratti di persona fisica e non giuridica, atteso che possono essere considerati IAP anche le società che abbiano quale oggetto sociale l’esercizio esclusivo dell’attività agricola, le società di persone qualora almeno un socio sia in possesso della qualifica di IAP, le cooperative e le società di capitali quando almeno un amministratore sia in possesso di detta qualifica. Pertanto, mentre per il coltivatore diretto vi è una riconducibilità diretta alla figura di piccolo imprenditore e, di conseguenza, allo scambio di manodopera, per quanto attiene alla figura dello IAP il MLPS chiarisce che è legata imprescindibilmente alla sussistenza dei requisiti previsti dalla seconda parte dell’art. 2083 c.c. che andranno valutati caso per caso[6].

Per quanto attiene alla giurisprudenza, i giudici di legittimità e di merito hanno avuto modo di pronunciarsi sulla tematica in esame con diverse sentenze.        

Il Tribunale di Ascoli Piceno, con sentenza del 15 ottobre 2008, ha stabilito che l’agricoltore il quale svolga attività lavorativa in un fondo altrui in virtù di un rapporto contrattuale di scambio di manodopera, ai sensi dell’art. 2139 c.c. (nella specie per la vendemmia), non può essere considerato un lavoratore subordinato, qualora lo scambio di manodopera avvenga senza compenso alcuno ed in maniera episodica.

In tema di previdenza ed assistenza la Cassazione civile, sez. lav., con sentenza del  26 febbraio 2008, n. 5055, ha statuito che la copertura assicurativa relativa all’infortunio sul lavoro sussiste in favore dell’agricoltore diretto, svolgente la sua attività sul fondo di un altro coltivatore, ove vi sia reciprocanza, ossia relazione di scambio gratuito di mano d’opera delle stessa natura, in quanto la connessione funzionale fra l’opera prestata ed il vantaggio (già conseguito o da conseguire in futuro) derivante dalla controprestazione dovuta in favore del fondo proprio configura il lavoro sul fondo altrui come una mera modalità del proprio lavoro autonomo. Ne consegue che, essendo la reciprocanza il presupposto della copertura assicurativa, resta a carico del lavoratore infortunato l’onere della prova della qualità di piccolo imprenditore agricolo del soggetto beneficiario della prestazione e della reciprocità delle attività lavorative.

Sempre La Cassazione civile sez. lav., con precedente sentenza datata 07 maggio 1998 n. 4636, in tema di tutela previdenziale aveva, altresì, decretato che sussiste l’occasione di lavoro, con conseguente diritto all’indennizzo in caso di infortunio, quando un agricoltore diretto svolge la sua attività sul fondo di un altro coltivatore, gratuitamente ma con l’impegno allo scambio, delle prestazioni, secondo l’istituto della reciprocanza, previsto dall’art. 2139 c.c., che – come conseguenza sotto l’aspetto previdenziale e assicurativo – comporta che detta attività deve ritenersi ricollegata al proprio fondo in maniera sostanziale e funzionale seppure in modo indiretto e immediato, sempre che lo scambio di mano d’opera, in quanto tra piccoli imprenditori agricoli, abbia ad oggetto prestazioni agricole reciproche, sicché non è sufficiente che lo scambio avvenga tra una prestazione agricola ed una prestazione di diverso genere, quale nella specie quella edile (nella stessa direzione Cassazione civile sez. lav.  06 giugno 1990 n. 5394).

Alla luce di quanto sopra illustrato si evidenziano i sotto indicati requisiti fondamentali dell’istituto dello scambio di manodopera.

  1. La temporaneità, collegata all’esigenza di ricevere una prestazione lavorativa esterna in un determinato momento dell’annata agraria, nel quale si verificano picchi di lavoro da eseguire in un breve arco di tempo.
  2. La reciprocità delle prestazioni offerte dalle parti che non possono prescindere dalla natura agricola, configurando un’attività lavorativa che va ricollegata a quella svolta normalmente sul proprio fondo; infatti, non configurandosi prestazioni di natura subordinata nello scambio, i piccoli imprenditori restano tutelati dalla propria assicurazione e l’attività prestata sul fondo altrui costituisce un’integrazione di quella effettuata nella propria azienda.
  3. La gratuità delle prestazioni, che devono essere orientate esclusivamente alla ricerca di una analoga prestazione, senza alcun corrispettivo in denaro o in natura.

Avendo tracciato una sorta di perimetro in ordine ai requisiti di carattere soggettivo ed oggettivo che legittimano il ricorso all’istituto in parola, si può affermare che la norma esclude esplicitamente l’ambito di applicazione del rapporto di lavoro subordinato, di cui all’art. 2094 c.c., nel caso in cui un piccolo imprenditore agricolo, in forza di un rapporto esclusivamente contrattuale, fornisce lavoro/mezzi ad altro soggetto, facendo insorgere in capo a quest’ultimo un diritto alla restituzione delle prestazione fornita, in tempi e modi concordati tra le parti, senza alcun corrispettivo in denaro.

Per contro, le prestazioni rese da soggetti non rientranti nelle tipologie sopra descritte, ovvero che operino in assenza degli indici di genuinità innanzi rassegnati, configurano aspetti patologici dell’istituto negoziale dello scambio di manodopera, che comportano l’applicazione della c.d. maxi sanzione, nel caso di qualificazione della prestazione quale rapporto di lavoro subordinato.

Ancor più, nel caso in cui un piccolo imprenditore con al seguito proprio personale dipendente presti la sua attività presso il fondo di altro soggetto giuridico, in situazione di promiscuità, potrebbe integrare un fenomeno interpositorio presidiato dalle fattispecie sanzionatorie di cui al D. Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi in tema di somministrazione abusiva/utilizzazione illecita).

[*] Ispettore del lavoro in servizio presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Chieti-Pescara, sede di Chieti.

Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegnano, in alcun modo, l’amministrazione di appartenenza.

note:

[1] Gli usi possono essere definiti come quei comportamenti generali osservati costantemente e per lungo tempo dalla collettività che assumono, col tempo, la caratteristica dell’obbligatorietà. Agli usi si fa riferimento in assenza di una disciplina legislativa o in quanto espressamente richiamati dalla legge.

[2]Sono considerati coltivatori diretti i proprietari, gli affittuari, gli usufruttuari e gli altri soggetti comunque denominati che direttamente e abitualmente si dedicano alla manuale coltivazione dei fondi e allevamento e governo del bestiame, sempre che la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un terzo di quella occorrente per le normali necessità della coltivazione dei fondi di pertinenza o del bestiame. La forza lavorativa del nucleo familiare viene valutata attribuendo a ciascuna unità attiva una frequenza annua di 280 gg. lavorative. Per ogni singolo nucleo familiare l’accertamento di manodopera non può in nessun caso essere inferiore a 104 gg. (Art. 2 L. 1047/57; Cass. SU 1° Settembre 1999 n. 616).

[3]La mezzadria è un contratto agrario d’associazione con il quale un proprietario di terreni (chiamato concedente) e un coltivatore mezzadro), si dividono (normalmente a metà) i prodotti e gli utili di un’azienda agricola (podere). La direzione dell’azienda spetta al concedente. Nel contratto di mezzadria, il mezzadro rappresenta anche la sua famiglia (detta famiglia colonica). Condizione essenziale per essere qualificato in detta tipologia è l’apporto annuo di almeno 120 giornate di lavoro.

[4]La colonìa parziaria è un sistema di sfruttamento dei fondi rustici per il quale il proprietario del fondo (o chi altri ne ha il godimento) lo affitta a chi si obblighi di coltivarlo nel comune interesse col patto di dividerne i prodotti agricoli in natura. Anche in questo caso occorre un apporto minimo di 120 giornate annue di lavoro.

[5]E’ imprenditore agricolo professionale il soggetto in possesso di conoscenze e competenze professionali, il quale dedichi alle attività agricole direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del proprio tempo e ricavi dalle medesime attività almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro. Tali parametri sono ridotti al 25% per gli imprenditori che operano nelle zone svantaggiate. Per ottenere la qualifica di IAP bisogna rivolgere apposita istanza alla regione che rilascia apposito attestato che da titolo ai fini delle prestazioni di tipo previdenziale, previa iscrizione nell’apposita gestione INPS Lavoratori Agricoli Autonomi.

[6]Si veda in proposito commento all’Interpello n. 6/2011 su questo stesso blog da parte del dott. Francesco Colaci (https://francescocolaci.wordpress.com/2011/03/06/risposte-ministero-lavoro-interpelli-2/).