Si richiama l’attenzione sulla sottostante sentenza della Corte di Cassazione con cui risulta confermato il disconoscimento di una cerssione di ramo d’azienda , da intendere come entità economica organizzata in maniera stabile e con idoneità alla produzione o allo scambio di beni o di servizi.
1. Con sentenza 29.9.2011, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato la nullità della cessione dei contratti di lavoro di alcuni lavoratori di I.T. T. s.p.a. in favore di P.H. s.r.l. ha, per l’effetto, ordinato il ripristino dei loro rapporti con T.I. s.p.a. (nella quale era stata incorporata per fusione la prima società) nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti.
2. In particolare, la Corte ha escluso la configurabilità di una cessione di ramo d’azienda, ed ha riconosciuto il diritto dei lavoratori a proseguire il rapporto di lavoro con T., ritenendo privo di efficacia verso quest’ultima le conciliazioni sindacali sottoscritte da alcuni lavoratori con P.H.
3. Avverso tale sentenza ricorre T. per tre motivi; resistono i lavoratori con controricorso, illustrato da memoria; propone ricorso incidentale per adesione, per tre motivi, P.H.
4. Il ricorso principale e quello incidentale per adesione devono essere riuniti in quanto proposti contro la stessa sentenza.
5. Con il primo motivo di ricorso, si deduce -in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione dell’art. 100 cod. proc. civ. e degli artt 1406, 2094 e 2112 cod. civ., per avere la sentenza ritenuto la sussistenza dell’interesse ad agire dei lavoratori per accertare l’illegittimità del trasferimento di ramo d’azienda, trascurando la normale inconfigurabilità di un intuitus personae nei confronti del datore e l’assenza di un pregiudizio concreto ed attuale del lavoratore, non configurabile a fronte di rapporti di lavoro proseguiti con il cessionario senza soluzione di continuità.
6. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce -in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.- violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 cod. civ., per avere la sentenza ritenuto che l’autonomia organizzativa e funzionale delle attività trasferite dovesse essere preesistente al trasferimento, quale presupposto essenziale per la configurabilità di un ramo di azienda.
7. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce -in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.- insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, la quale non avrebbe motivato adeguatamente in ordine al ritenuto difetto di autonomia del ramo, che era invece già esistente al momento della cessione.
8. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Nel rapporto obbligatorio il debitore è, di regola, indifferente al mutamento della persona del creditore, mentre il mutamento della persona del debitore può ledere l’interesse del creditore. In base a questo principio -espresso negli artt. 2740, 1268 co. 1, 1272 co. 1, 1273 co. 1, 1406 cod. civ.- deve considerarsi inefficace la cessione del contratto di lavoro qualora il lavoratore, titolare di crediti verso il datore, non abbia prestato il consenso di cui all’art. 1406 citato. L’art. 2112 cod. civ., che permette all’imprenditore il trasferimento dell’azienda, con successione del cessionario negli obblighi del cedente e senza necessità di consenso del lavoratore, costituisce eccezione al detto principio e non si applica se non sia identificabile, quale oggetto del trasferimento, un’azienda o un suo ramo, da intendere come entità economica organizzata in maniera stabile e con idoneità alla produzione o allo scambio di beni o di servizi.
9. Di conseguenza sussiste l’interesse del lavoratore ad accertare in giudizio la non ravvisabilità di un ramo di azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e perciò l’inefficacia di questo nei suoi confronti, in assenza di consenso. Né questo interesse è escluso dalla solidarietà di cedente e cessionario stabilita dal capoverso dell’art. 2112, la quale ha per oggetto solo i crediti del lavoratore ceduto, “esistenti” al momento del trasferimento e non quelli futuri, onde può ben considerarsi un pregiudizio a carico del ceduto in caso di cessione dell’azienda a soggetto meno solvibile. Per altro verso, è evidente che l’interesse del lavoratore ad agire per l’accertamento della illegittimità della cessione del ramo d’azienda si configura anche in ragione del rischio di una modifica in pejus della disciplina collettiva applicabile al rapporto lavorativo, nonché, per altro verso, della possibilità di diversa garanzia, in fatto o in diritto, di conservazione del posto di lavoro presso il cessionario.
10. Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato l’esigenza di tutela del lavoratore connessa al generale divieto di estemalizzazione “come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate tra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore”, divieto funzionale proprio all’interesse ad accertare che il ramo di azienda ceduto consista in una “preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non in una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento” (in tale senso, cfr. Sez. L, 6.4.2006 n. 8017 e Sez. L, 30.12.2003 n. 19842), e che il mutamento del datore di lavoro non si collochi in una prospettiva di elusione delle norme (così Cass. Sez. L, sentenza 28.10.2013, n. 22627).
11. Può dunque affermarsi che, in tema di trasferimento di azienda, il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio la non ravvisabilità di un ramo di azienda in un complesso di beni oggetto del trasferimento e, quindi, l’inefficacia di questo nei suoi confronti in difetto del suo consenso, per l’inapplicabilità dell’alt. 2112 cod. civ. e l’operatività della regola generale di cui all’art. 1406 cod. civ., non essendo indifferente per il lavoratore, quale creditore della prestazione retributiva, il mutamento della persona del debitore, ossia del datore di lavoro, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei diritti dei lavoratori.
12. Il secondo motivo di ricorso è del pari infondato.
L’art. 2112 c.c., comma 5, nel testo introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 18, art. 1 (di attuazione della direttiva n. 98/50/Ce, relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti) prevedeva -prima della novella del 2003 e nel testo qui applicabile- il trasferimento di parte dell’azienda, precisando che per quest’ultimo doveva intendersi un’articolazione funzionalmente autonoma di quell’attività economica organizzata definita nella prima parte del medesimo quinto comma e con le medesime connotazioni; inoltre, la citata disposizione prescriveva anche che tale frazione dell’impresa, oggetto del trasferimento parziale, doveva essere preesistente al trasferimento e, pur a seguito di questo, doveva conservare la propria identità. Pertanto, rientra nella nozione di trasferimento di parte dell’azienda, prevista dalla richiamata disposizione, l’enucleazione di attività che avessero avuto una loro originaria identità tale da rispecchiare già le connotazioni tipiche dell’attività d’impresa, mentre non vi rientra l’assemblaggio di frammenti del processo produttivo, che, quale parte del tutto, avrebbero potuto semmai dar vita ad una nuova impresa, ma questa non sarebbe stata preesistente, bensì sarebbe sorta proprio con l’atto di trasferimento (o, meglio, di conferimento) in favore del cessionario.
13. Con riferimento al caso di specie, la sentenza impugnata ha accertato che il complesso ceduto, denominata IT User support e composta da circa 600 dipendenti, ricomprendeva il GISP centrale e territoriale (che si occupava di reti LAN, sicurezza informatica ed interconnessioni), il Customer care (che assicurava l’assistenza informatica al cliente interno), l’Asset management (che curava la gestioni delle apparecchiature, l’inventario e la distribuzione: è il settore nel quale prestavano servizio i ricorrenti), il Desktop management (che svolgeva la manutenzione dell’hardware, delle postazioni di lavoro, l’assistenza per gli applicativi e l’help desk tecnico). In tale complesso erano confluiti lavoratori già dipendenti di società diverse (N., E., S., S., T.), svolgenti diverse funzioni presso diverse sedi; peraltro, non tutti i dipendenti di tali società erano stati assegnati ai detti servizi, e solo parte delle funzioni svolte dai detti settori erano confluite nell’IT user support (altre erano state inglobate in una “control room”, in capo al soggetto cedente).
14. La corte territoriale ha altresì evidenziato che l’accorpamento nell’IT user support aveva riguardato attività disomogenee per funzioni e professionalità, non integrate tra loro e prive di coordinamento unitario, e dunque sprovviste di qualsiasi autonomia organizzativa, funzionale ed economica.
15. La sentenza impugnata ha quindi ritenuto che, al fine di una corretta applicazione dell’art. 2112 cod. civ., l’oggetto del trasferimento deve consistere in una preesistente entità economica che oggettivamente si presenti dotata di autonomia organizzativa ed economica funzionalizzata allo svolgimento di un’attività volta alla produzione di beni e servizi, non essendo sufficiente la sola volontà dell’imprenditore ad unificare un complesso di beni (di per sé privo di una preesistente autonomia organizzativa ed economica volta ad uno scopo unitario) al solo scopo di renderlo oggetto di un contratto di cessione di ramo di azienda.
16. La conclusione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che -con riferimento alla cessione di azienda regolata dall’art. 2112 cod. civ., nella formulazione anteriore alla modifica introdotta dalla c.d. legge Biagi- ha sempre ritenuto che l’elemento essenziale che caratterizza la cessione del ramo di azienda è la preesistenza di una struttura organizzata e funzionalmente autonoma all’interno della cedente ed il mantenimento di tale struttura all’interno della cessionario, non potendo costituire invece un ramo di azienda l’assemblaggio di frammenti del processo produttivo privi di autonomia.
17. Si è infatti affermato (così Cass. Sez. L, sentenza 3.10.2013, n. 22627; Sez. L, sentenza n. 22613 del 03/10/2013; Sez. L, sentenza n. 21711 del 04/12/2012; Sez. L, sentenza n. 2489 del 01/02/2008; Sez. L, sentenza n. 6452 del 17/03/2009) che per “ramo d’azienda” , ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. (così come modificato dalla legge 2 febbraio 2001, n. 18 , in applicazione della direttiva CE n. 98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l’esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un ramo di azienda già costituito.
Si è pure rilevato (Sez. L, sentenza n. 206 del 10/01/2004) che l’art 2112 cod. civ., letto in linea con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito alla interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fornite dalla direttiva n. 50 del 1998, consente di ricondurre alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purché si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identità. In presenza di tali condizioni, può configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how”, realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex art. 1406 e seguenti cod. civ. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’art. 2112 cod. civ. resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto.
18. Detta nozione di trasferimento di ramo d’azienda è coerente con la disciplina in materia dell’Unione europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977,77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria” (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).
19. La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario, ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l’esercizio di un’attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C-340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C-232/04 e C- 233/04, Guney-Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hemandez Vidal, C-127/96, C- 229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punto 60).
20. Tali principi sono stati ribaditi ulteriormente dalla Corte europea che, pur richiamando l’art. 8 della direttiva 2001/23 e la facoltà ivi prevista che gli Stati membri applichino o introducano disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori, prevedendo ad esempio il mantenimento dei diritti dei lavoratori anche in ipotesi più ampie (e così nell’ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un’entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento), ha affermato che, ai fini dell’applicazione di detta direttiva, l’entità economica in questione deve in particolare, anteriormente al trasferimento, godere di un’autonomia funzionale sufficiente, e che, per altro verso, l’impiego, al citato articolo 6, paragrafo 1, primo e quarto comma, del termine «conservi» implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento (Corte di Giustizia 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a., punti 32-34).
21. In proposito, va segnalato che la specifica finalità perseguita dalla giurisprudenza comunitaria (volta ad agevolare il trapasso dei lavoratori al cessionario e la conservazione del posto di lavoro) non è incompatibile con la finalità, perseguita dalla giurisprudenza nazionale, di impedire le esternalizzazioni che realizzino un peggioramento della posizione dei lavoratori, trattandosi di tutele volte alla protezione dei diritti dei lavoratore nell’ambito delle vicende successorie del datore di lavoro.
22. Affinché, dunque, si possano produrre gli effetti derivanti dall’applicazione dell’art. 2112 cod. civ., occorre la configurabilità di un trasferimento di ramo di azienda, ciò che postula necessariamente, secondo quanto detto, una struttura organizzata e funzionalmente autonoma all’interno della cedente ed il mantenimento di tale struttura all’interno della cessionario.
23. Tale situazione non ricorre nella specie, secondo quanto accertato in fatto dal giudice di merito.
24. Può dunque affermarsi che esattamente il giudice di merito esclude la ravvisabilità di un ramo di azienda, oggetto di cessione ai sensi dell’art. 2112 cod. civ., in un complesso di servizi -privi di struttura aziendale autonoma e preesistente- consistenti nella gestione e manutenzione di strutture informatiche ed in assistenza tecnica, che restino disomogenei per funzioni svolte e professionalità coinvolte, non integrati tra loro e privi di coordinamento unitario. Né può assumere rilievo, al fine di ravvisare un trasferimento di ramo di azienda, la sola decisione, assunta dal soggetto cedente, di unificare alcuni beni e lavoratori, affidando a questi un’unica funzione al momento del trasferimento, in quanto la qualificazione come ramo di azienda contrasterebbe sia con le direttive comunitarie nn. 1998/50 e 2001/23, che richiedono già prima di quest’atto “un’entità economica che conservi la propria identità”, ossia un assetto già formato, sia con gli articoli 4 e 36 Cost., che impediscono di rimettere discipline inderogabili di tutela dei lavoratori (corte cost n. 115 del 1994) ad un mero atto di volontà del datore di lavoro, incontrollabile per l’assenza di riferimenti oggettivi.
25. Il terzo motivo è del pari infondato.
L’iter logico seguito dalla sentenza è lineare e coerente e la soluzione è adeguatamente motivata: la sentenza ha infatti rilevato che dall’istruttoria era emerso che I.T. T. aveva trattenuto il polo informatico al suo interno, esternalizzando solo quattro settori con funzioni eterogenee che, in precedenza, avevano operato non in contratto tra loro e senza alcun coordinamento ed essendo anzi appartenute ancor prima a società diverse, e che conseguentemente doveva escludersi che alla cessione preesistesse una articolazione autonoma. In difetto della possibilità di individuare un criterio unificante dell’IT user support, anche solo per sottrazione rispetto alle funzioni relative ai servizi informatici rimasti in T. (nella c.d. control room o in una delle altre cinque divisioni nelle quali, insieme all’IT user support, era stata organizzata la originaria IT operations and infrastructures), la conclusione cui è pervenuta la corte territoriale risulta immune da censure.
26. Il controricorso incidentale per adesione proposto da P.H., proposto per i medesimi motivi del ricorso principale, deve essere, al pari di questo e per i motivi fin qui esposti, respinto.
27. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese e competenze di lite, che si liquidano in €. tremila per compensi ed €. cento per spese, oltre accessori come per legge.