Si richiama l’attenzione sulla sottostante circolare del Ministero del Lavoro ,che fornisce precisazioni e chiarimenti al personale ispettivo sulle modificazioni ed integrazione apportate dalla legge n .78/ 14 ,di conversione del decreto legge n.34/14 , in materia di lavoro a termine, lavoro in somministrazione ed apprendistato
Il D.L. n. 34/2014, convertito dalla L. n. 78/2014, ha introdotto importanti novità in materia di lavoro a tempo determinato, somministrazione di lavoro e apprendistato.
Trattasi di interventi volti a semplificare il ricorso a tali tipologie contrattuali e che impattano necessariamente sull’attività del personale ispettivo di questo Ministero, rispetto alla quale è opportuno fornire alcuni orientamenti interpretativi finalizzati ad uniformarne comportamento.
Contratto a tempo determinato
Il D.L. n. 34/2014 interviene a modificare anzitutto l’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, eliminando definitivamente l’obbligo di indicazione delle ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro.
Secondo la nuova formulazione del Decreto del 2001 “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contralto di somministrazione a tempo determinato ai sensi del comma 4 dell’articolo 20 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
La disposizione consente pertanto l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, anche nell’ambito di una somministrazione a tempo determinato (v. infra), senza alcuna indicazione delle citate ragioni giustificatrici purché il singolo rapporto, comprensivo di proroghe, non superi i 36 mesi.
Ai fini della legittima instaurazione del rapporto è quindi sufficiente l’indicazione di un termine che, nell’atto scritto di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 368/2001, può risultare “direttamente o indirettamente” (v. ML circ. n. 42/2002).
La sussistenza di specifiche ragioni giustificatrici continua tuttavia, anche nel nuovo quadro normativo, a sortire alcuni effetti. Ad esempio ciò avviene quando il lavoratore è assunto a tempo determinato “per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità”, in tali ipotesi, Infatti, l’assunzione è esente dalle limitazioni quantitative di cui all’art. 1, comma 1 e art. 10, comma 7, D.Lgs. n. 368/2001 (v. infra) e il datore di lavoro non è tenuto, ai sensi dell’art. 2, comma 29, della L. n. 92/2012, al versamento del contributo addizionale dell’ 1,4%.
In tali ipotesi appare pertanto opportuno, ai soli fini di “trasparenza”, che i datori di lavoro continuino a far risultare nell’atto scritto la ragione che ha portato alla stipula del contratto a tempo determinato.
A tal proposito si ricorda che rimane pressoché invariata la previsione di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 368/2001 secondo la quale “l’apposizione del termine (…) è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto”.
Quanto all’inciso secondo il quale la stipula del contratto può avvenire “per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione”, esso ricalca la precedente disciplina del contratto a termine c.d. “acausale” contenuta nel D.L. n. 76/2013, con il semplice scopo di evidenziare come l’elemento di flessibilità introdotto (eliminazione dell ‘obbligo di indicare le ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine) trovi “universalmente” applicazione. Da tale inciso non possono invece farsi derivare effetti sulla disciplina dei rinnovi contrattuali di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 la quale – come meglio indicato in seguito – rimane inalterata.
Limiti quantitativi: il limite legate
Contestualmente alla eliminazione dell ’obbligo di indicare le ragioni giustificatrici del termine, il Legislatore ha introdotto dei limiti di carattere quantitativo alla stipula di contratti a tempo determinato, limiti peraltro presidiati da sanzione amministrativa.
In particolare si prevede che “fatto salvo quanto disposto dall’articolo 10, comma 7 il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo non può eccedere il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell ‘anno di assunzione”.
Il datore di lavoro, in assenza di una diversa disciplina contrattuale applicata (v. intra), è dunque tenuto a verificare quanti rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato siano vigenti alla data del 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto o, per le attività iniziate durante l’anno, alla data di assunzione del primo lavoratore a termine (sebbene in tal caso si ricordano le esclusioni dal computo dei contratti a termine previste dall’art. 10, comma 7 lett. a), del D.Lgs. n. 368/2001 o dall’art. 28, comma 3, del D.L. n. 179/2012 conv. da L. n. 221/2012, v. infra).
Da tale verifica dovranno pertanto essere esclusi i rapporti di natura autonoma o di lavoro accessorio, i lavoratori parasubordinati e gli associati in partecipazione.
Considerate le finalità della disposizione, volte ad assicurare una specifica proporzione tra lavoratori “stabili” e a termine, si ritiene inoltre che nell’ambito della prima categoria non vadano computati i lavoratori a chiamata a tempo indeterminato privi di indennità di disponibilità (per coloro per i quali è prevista l’indennità il computo avviene secondo la disciplina di cui all’art. 39 del D.Lgs. n. 276/2003). Viceversa andranno conteggiati i lavoratori part-time (secondo la disciplina di cui all’art. 6 del D.Lgs. n. 61/2000), i dirigenti a tempo indeterminato e gli apprendisti. In tale ultimo caso, infatti, va evidenziato che il contratto di apprendistato è esplicitamente definito, dall’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 quale contratto di lavoro a tempo indeterminato” e che la disposizione di cui all’art. 7, comma 3, del medesimo Decreto – secondo cui “i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative e istituti – fa comunque salve “specifiche previsioni di legge”, Inoltre l’esclusione degli apprendisti nasce, anche nell’ambito del D.Lgs. n. 167/2011, quale disposizione per favorirne l’assunzione e, pertanto, un diverso orientamento finirebbe per disincentivare il ricorso all’istituto. Gli apprendisti non andranno invece computati, evidentemente, se assunti a tempo determinato nelle specifiche ipotesi di cui all’art. 4. comma 5 e di cui al nuovo comma 2 quater dell ‘art. 3 del D.Lgs. n. 167/2011.
La verifica concernente il numero dei lavoratori a tempo indeterminato andrà effettuata in relazione al totale dei lavoratori complessivamente in forza, a prescindere dall’unità produttiva dove gli stessi sono occupati, ferma restando la possibilità di destinare i lavoratori a tempo determinato presso una o soltanto alcune unità produttive facenti capo al medesimo datore di lavoro.
Ciò premesso, a titolo esemplificativo, qualora il datore di lavoro alla data del 1° gennaio abbia in corso 10 rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, potrà assumere sino a 2 lavoratori a termine, a prescindere dalla durata dei relativi contratti e ciò anche se, nel corso dell’anno, il numero dei lavoratori “stabili” sia diminuito.
Qualora la percentuale del 20% dia luogo ad un numero decimale il datore di lavoro potrà effettuare un arrotondamento all’unità superiore qualora il decimale sia uguale o superiore a 0,5; a titolo esemplificativo, pertanto, una percentuale di contratti a termine stipulabili pari a 2,50 equivale a 3 contratti.
Considerata la delicatezza di tale profilo interpretativo si ritiene però che la sanzione per il superamento del limite massimo dei contratti a termine non trovi applicazione qualora il datore di lavoro, prima della pubblicazione della presente circolare, abbia proceduto alla assunzione di un numero di lavoratori a termine sulla base di un arrotondamento comunque “in eccesso”.
Va ulteriormente chiarito che “il numero complessivo dei contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro” non costituisce un limite ”fisso” annuale. Esso rappresenta invece una proporzione, come si è detto, tra lavoratori “stabili” e a termine, di modo che allo scadere di un contratto sarà possibile stipularne un altro sempreché si rispetti la percentuale massima di lavoratori a tempo determinato pari al 20%. Del resto di tale orientamento e conferma anche la disposizione transitoria contenuta nell’art. 2 bis del D.L. n. 34/2014 che richiede, ai datori di lavoro che alla data di entrata in vigore del Decreto occupavano un numero troppo alto di lavoratori a tempo determinato, di rientrare progressivamente, entro il 31 dicembre p.v., nei limiti di legge (v. infra).
Ulteriori contratti a tempo determinato potranno essere stipulati solo in forza di specifiche disposizioni. In particolare si ricorda che, ai sensi dell’art. 10, comma 7, del D.Lgs. n. 368/2001, “sono in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi:
a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici:
h) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni;
c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
d) con lavoratori di età superiore a 55 anni”.
Quanto alle ragioni di stagionalità” che possono determinare l’esclusione dal computo del lavoratore a termine si evidenzia che – ferme restando le ipotesi già elencate nel D.P.R. n. 1525/1963 – ulteriori ipotesi possono essere rintracciate nell’ambito del contratto collettivo applicato, anche aziendale (il Legislatore rinvia infatti al citato D.P.R. ma non in via esclusiva). Ciò anche in relazione alla assunzione di lavoratori a termine per far fronte ad incrementi di produttività che potranno rientrare nella ragioni “di stagionalità” solo se così è previsto dalla contrattazione collettiva.
Si ricorda che sono altresì esenti da limitazioni quantitative:
– i contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 28 del D.L. n. 179/2012 da parte di una start – up innovativa, secondo la disciplina indicata dallo stesso Decreto del 2012;
– le altre fattispecie di esclusione indicate dall’art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001, ivi comprese quella relativa alle assunzioni ai sensi dell’art. 8, comma 2, della L. n. 223/1991 e quella di cui al nuovo comma 5 bis per i contratti stipulati da istituti pubblici ed enti privati di ricerca (v. infra).
Appare altresì opportuno chiarire che non concorrono al superamento dei limiti quantitativi le assunzioni di disabili con contratto a tempo determinato ai sensi dell’art. 11 della L. n. 68/1991 e le acquisizioni di personale a termine nelle ipotesi di trasferimenti d’azienda o di rami di azienda, in tale ultimo caso i relativi rapporti a tempo determinato potranno essere prorogati nel rispetto della attuale disciplina (v. infra) mentre un eventuale rinnovo degli stessi dovrà essere tenuto in conto ai fini della valutazione sul superamento dei limiti quantitativi.
Segue: datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti.
Il Legislatore prevede altresì che “per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato”.
Rispetto alla platea dei datori di lavoro che occupano da 0 a 5 dipendenti a tempo indeterminato è dunque sempre possibile l’assunzione di un lavoratore a termine. In tal caso l’intervento della contrattazione collettiva, anziché sostituire in toto la disciplina legale (v. infra), potrà esclusivamente prevedere margini più ampi di assunzioni a tempo determinato, atteso il tenore della formulazione (“è sempre possibile”).
Segue: il limite contrattuale
La disposizione in esame, come anticipato, fa salve le diverse previsioni della contrattazione collettiva introdotte ai sensi dell ’art. 10, comma 7, del D.Lgs. n. 368/2001, secondo cui “la individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell’istituto del contratto a tempo determinato stipulato ai sensi dell’articolo 1, comma 1, è affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi anche in tal caso restano esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi nelle ipotesi di cui alle lettere a), b), c) e d) della medesima disposizione.
Il rinvio alla contrattazione collettiva è un rinvio privo di particolari “vincoli”. Ciò vuol dire che le parti sociali possono legittimamente derogare, ad esempio, al limite percentuale del 20% di cui all’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001 (aumentandolo o diminuendolo) o alla scelta del Legislatore di “fotografare” la realtà aziendale al 1° gennaio dell’anno di assunzione del lavoratore a termine. In tal senso può pertanto ritenersi legittimo che i contratti collettivi scelgano di tener conto dei lavoratori a tempo indeterminato non come quelli in forza ad una certa data ma come quelli mediamente occupati in un determinato arco temporale.
A tal proposito va poi evidenziato il contenuto dell’art. 2 bis, comma 2, del D.L. n. 34/2014, secondo il quale “in sede di prima applicazione del limite percentuale (…) conservano efficacia, ove diversi, i limiti percentuali già stabiliti dai vigenti, contratti collettivi, nazionali di lavoro”.
Non è pertanto necessario, da parte della contrattazione collettiva, l’introduzione di nuove clausole limitatrici, giacché continuano a trovare applicazione quelle già esistenti alla data di entrata in vigore del Decreto, ferma restando la possibilità che in un secondo momento (in tal senso va inteso “in sede di prima applicazione”) la stessa contrattazione decida di indicarne di nuove.
Segue: Istituti pubblici ed enti privati di ricerca
Secondo il nuovo comma 5 bis dell’art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001 “Il limite di percentuali di cui all’articolo 1, comma 1, non si applica ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati tra istituti pubblici di ricerca ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa, I contratti di lavoro a tempo determinato che abbiano ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere durata pari a quella del progetto di ricerca al quale si riferiscono”.
Tale disposizione consente pertanto di derogare sia al limite quantitativo dei contratti a tempo determinato, sia al limite di 36 mesi di durata massima del singolo contratto, qualora i soggetti stipulanti siano:
– da un lato, un istituto pubblico di ricerca o un ente privato di ricerca;
– dall’altro, un lavoratore chiamato a svolgere “in via esclusiva” attività di ricerca, di assistenza tecnica o di coordinamento o direzione della stessa.
A tal riguardo si ritiene opportuno evidenziare che la deroga in questione non è invece espressamente riferita anche al limite dei rinnovi contrattuali di cui al l’ “art. 5, comma 4 bis. del Decreto (v. infra) e pertanto anche rispetto a tali rapporti – fatte salve diverse previsioni della contrattazione collettiva ai sensi dello stesso art. 5 – occorrerà prestare attenzione ad un eventuale superamento dei 36 mesi di durata complessiva di più rapporti a tempo determinato per Io svolgimento di mansioni equivalenti (v. ML circ. n. 13/2008).
Segue: disciplina sanzionatoria
In sede di conversione del D.L. n. 34/2014 – e pertanto a far data dal 20 maggio u.s. – il Legislatore ha introdotto una specifica sanzione amministrativa a presidio dei limiti quantitativi di assunzioni con contratto a tempo determinato.
Ai sensi del nuovo comma 4 septies dell’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 “in caso di violazione del limite percentuale di cui all’articolo 1, comma 1, per ciascun lavoratore si applica la sanzione amministrativa:
a) pari al 20 per cento della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non sia superiore a uno:
b) pari al 50 per cento della – retribuzione per ciascun mese o frazione di mese superiore a quindici giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale sia superiore a uno”.
Sul punto va precisato che la sanzione amministrativa – atteso peraltro il rinvio all’art 1, comma 1, del Decreto che a sua volta rinvia, ove esistenti, alle previsioni adottate dalla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 10, comma 7, del D.Lgs. n. 368/2001 – trova applicazione in caso di superamento del limite alla stipulazione di contratti a tempo determinato che il datore di lavoro è tenuto a rispettare, sia questo il limite legale del 20% che il diverso limite contrattuale.
L’importo sanzionatolo va poi calcolato in base ad una percentuale della retribuzione spettante ai lavoratori assunti in violazione del limite e cioè gli ultimi assunti in ordine di tempo.
La retribuzione da prendere in considerazione ai fini del calcolo è, in assenza di specificazioni, la retribuzione lorda mensile riportata nel singolo contratto di lavoro, desumibile anche attraverso una divisione della retribuzione annuale per il numero di mensilità spellanti. Qualora nel contratto individuale non sia esplicitamente riportata la retribuzione lorda mensile o annuale, occorrerà invece rifarsi alla retribuzione tabellare prevista nel contratto collettivo applicato o applicabile.
L’importo individuato attraverso l’applicazione della percentuale del 20% o del 50% della retribuzione lorda mensile – arrotondato all’unità superiore qualora il primo decimale sia pari o superiore a 0,5 – andrà quindi moltiplicato, “per ciascun lavoratore”, per il numero dei mesi o frazione di mese superiore a 15 giorni di occupazione.
A tal fine, ogni periodo pari a 30 giorni di occupazione andrà considerato come mese intero e, solo se i giorni residui sono più di 15, andrà conteggiato un ulteriore mese. Ciò sta anche a significare che, per periodi di occupazione inferiore ai 16 giorni, la sanzione non potrà trovare evidentemente applicazione in quanto il moltiplicatore sarebbe pari a zero.
Peraltro, ai fini del calcolo del periodo di occupazione, non è necessario tener conto di eventuali “sospensioni” del rapporto, ad esempio, per malattia, maternità, infortunio o part-time verticale; ciò che conta sarà dunque la data di instaurazione del rapporto (c.d. dies a quo) e la data in cui è stata accertata l’esistenza dello “sforamento” (c.d. dies ad quem, normalmente coincidente con la data dell’accertamento, sebbene sia possibile accertare degli “sforamenti” avvenuti in relazione a rapporti già conclusi, cosicché tale data coinciderà con la scadenza del termine).
Si ricorda inoltre che la sanzione amministrativa, pur non risultando ammissibile a diffida, attesa l’insanabilità della violazione legata al superamento di un limite alle assunzioni a tempo determinato ormai realizzato, è certamente soggetta alle riduzioni di cui all’art. 16 della L. n. 689/1981. Nel ricordare infatti che, secondo la giurisprudenza, ”la prevista facoltà di scelta del contravventore, tra il pagamento di un terzo del massimo ovvero – se più favorevole – deI doppio del minimo della sanzione edittale, si riferisce chiaramente alla eventualità (sia pur statisticamente più frequente) di una sanzione articolata da un minimo ad un massimo, ma non postula la necessità di una tale articolazione” (Cass. 19 maggio 1989, n. 2407), l’importo sanzionatorio in questione andrà notificato nella misura di un terzo ed il suo pagamento entro 60 giorni dalla notifica estinguerà la violazione.
Impresa che supera di una sola unità il numero massimo di contratti a tempo determinato
Retribuzione annua lorda del lavoratore in questione: 19.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 4 mesi e 10 giorni Importo sanzionatorio:
euro 19.000/13 = euro 1.461,53 (retribuzione mensile)
euro 1.461,53*20% = euro 292 (percentuale arrotondata di retribuzione mensile)
euro 292*4 = euro 1.168 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione)
euro 1.168/3 = 389,33 (importo sanzione ridotta ex art. 16, I. n. 689/1981).
Impresa che supera di tre unità il numero massimo di contratti a tempo determinato
Lavoratore n. 1
Retribuzione annua lorda: 19.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 4 mesi e 10 giorni
Lavoratura n. 2
Retribuzione annua lorda: 26.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 2 mesi e 16 giorni
Lavoratore n. 3
Retribuzione annua lorda: 15.600 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione: 1 mese e 6 giorni
Importo sanzionatorio:
euro 19.000/13 = euro 1.461,53 (retribuzione mensile lavorature n. 1)
euro 26.000/13 = euro 2.000 (retribuzione mensile lavoratore n. 2)
euro 15.600/13 = euro 1.200 (retribuzione mensile lavoratore n. 3)
euro 1.461,53*50% = euro 731 (percentuale arrotondata di retribuzione mensile lavoratore n. 1)
euro 2.000*50% – 1.000 (percentuale retribuzione mensile lavoratore n. 2)
euro 1.200*50% = 600 (percentuale retribuzione mensili lavoratore n. 3)
euro 731 *4 = euro 2.924 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 1)
euro 1.000*3 = euro 3.000 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 2)
euro 600* 1 = euro 600 (percentuale retribuzione mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 3)
euro (2.924+3.000+600)/3 = euro 2.174.66 (importo sanzione ridotta ex art. 16, L. n. 689/1981)
Si ritengono ancora efficaci le clausole contrattuali che impongono limiti complessivi alla stipula di contratti a termine e alla utilizzazione di lavoratori somministrati; in tal caso, ai fini deIla individuazione del regime sanzionatorio applicabile, il personale ispettivo avrà cura di verificari se il superamento dei limiti sia avvenuto in ragione del ricorso a contratti a tempo determinato o alla somministrazione di lavoro; nel primo caso sarà infatti applicabile la nuova sanzione di cui all’art. 5, comma 4 septies, del D.Lgs. n. 368/2001, nel secondo quella di cui all’art. 18, comma v del D.Lgs. n. 276/2003. Qualora il limite sia superato, ad esempio, di due unità, la prima assunta a tempo determinato e la seconda come lavoratore in somministrazione, troverà applicazione la nuova sanzione prevista dal D.Lgs. n. 368/2001 parametrata al 50% della retribuzione, escludendosi in ogni caso l’applicazione contestuale di entrambe le sanzioni.
Va poi ricordata la disposizione di cui all ’art. 1, comma 2 ter, del D.L. n. 34/2014, introdotto in sede di conversione dalla L. n. 78/2014 secondo il quale, in coerenza peraltro con i principi già contenuti nell’art. 1 della L. n. 689/19981, “la sanzione (…) non si applica per i rapporti di lavino instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, che comportino il superamento del limite percentuale (… )”.
Il Legislatore stabilisce inoltre, all ‘art. 2 bis, comma 3, del D.L, che “il datore di lavoro che alla data di entrata in vigore del presente decreto abbia in corso rapporti di lavoro a termini che comportino il superamento del limite percentuale (…) è tenuto a rientrare nel predetto limite entro il 31 dicembre 2014, salvo che un contratto collettivo applicabile nell ‘azienda disponga un limite percentuale o un termine più favorevole. In caso contrario, il datore di lavoro, successivamente a tale data, non può stipulare nuovi contratti di lavoro a tempo determinato fino a quando non rientri nel limite percentuale (…)”.
Al riguardo va osservato che la disposizione fa comunque salva la possibilità che la contrattazione collettiva “applicabile nell azienda” individui una percentuale e/o un diverso termine, successivo al 31 dicembre 2014, utile a rientrare nei limiti. La contrattazione collettiva abilitata è anche quella di livello territoriale e aziendale ma a quest’ultima è data esclusivamente la possibilità di disciplinare il regime transitorio di cui si è detto cosicché, al termine dello stesso, troveranno applicazione i limiti alla stipulazione di contratti a termine previsti o direttamente dal Legislatore o dalla contrattazione di livello nazionale (salvo delega di quest’ultima alla contrattazione di secondo livello).
A partire dal 2015 – fatto salvo quanto eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva – non potranno pertanto effettuare nuove assunzioni a tempo determinato tutti i datori di lavoro che, alla data del 21 marzo u.s. (data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014), avevano superato i limiti quantitativi in questione senza rientrarvi entro il 31 dicembre p.v.
Inoltre, dall’entrata in vigore del nuovo regime sanzionatorio (ossia dal 20 maggio 2014), anche tali datori di lavoro, al pari di tutti gli altri, potranno essere sanzionati qualora, anziché rientrare nei limiti, effettuino ulteriori assunzioni a tempo determinato rispetto a quelle ammesse.
La sanzione non sarà invece applicabile, operando esclusivamente il divieto di assunzione a partire dal 2015, qualora tali datori di lavoro si limitino a prorogare i contratti già in essere.
Disciplina della proroga
Significative, inoltre, sono le modifiche alla disciplina della proroga. Secondo la nuova formulazione dell’art. 4, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001, a seguito della conversione del D.L. n. 34/2014, “il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavorature, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi le proroghe sono ammesse, fino ad un massimo di cinque volte, nell’arco dei complessivi trentasei mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi, a condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
La prorogabilità del termine, sino ad un massimo di 5 volte e sempre entro il limite di durata complessiva del singolo contratto pari a 36 mesi, è dunque ammessa alla condizione che ci si riferisca alla “stessa attività lavorativa”, intendendo con tale formulazione le stesse mansioni, le mansioni equivalenti o comunque quelle svolte in applicazione della disciplina di cui all’art. 2103 c.c.
Il Legislatore evidenzia inoltre che il limite delle 5 proroghe trova applicazione “indipendentemente dal numero dei rinnovi”. Ciò significa che, nell’ambito di più contratti a tempo determinato stipulati tra un datore di lavoro e un lavoratore “per lo svolgimento di mansioni equivalenti”, ai sensi dell’art. 5, comma 4 bis, del D.I.gs. n. 368/2001, le proroghe totali non potranno essere più di 5. Viceversa, qualora il nuovo contratto a termine non preveda lo svolgimento di mansioni equivalenti, le eventuali precedenti proroghe non dovranno essere “contabilizzate”.
Il nuovo istituto della proroga trova applicazione, secondo quanto previsto dall’art. 2 bis del D.L. n. 34/2014, ai rapporti di lavoro costituiti a decorrere dalla sua entrata in vigore (21 marzo 2014).
I rapporti costituiti precedentemente a tale data erano e sono quindi soggetti al previgente regime, secondo il quale “il termine del contratto a tempo determinato può essere (…) prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta (…)”.
Tuttavia, sulla base di quanto stabilisce ancora l’art. 2 bis del D.L. n. 34 – secondo il quale “sono fatti salvi gli effetti già prodotti dalle disposizioni introdotte dal presente decreto” – restano comunque legittime eventuali proroghe di contratti sottoscritti prima della sua entrata in vigore, fermo restando che a partire dal 20 maggio u.s. non è più possibile, per gli stessi contratti, prevedete nuove proroghe.
Si ricorda in proposito che, in forza della iniziale formulazione del D.L., le proroghe erano ammesse sino ad 8 volte e quindi appare corretto l’operato di quei datori di lavoro che, durante il periodo 21 marzo – 19 maggio 2014, abbiano effettuato sino ad un massimo di 8 proroghe.
Proroghe e rinnovi contrattuali
Si ricorda che la proroga è un istituto diverso da quello dei “rinnovi”. In particolare va ricordato che si ha “proroga” di un contratto nel caso in cui, prima della scadenza del termine, lo stesso venga prorogato ad altra data. Si ha invece “rinnovo” quando l’iniziale contratto a termine raggiunga la scadenza originariamente prevista (o successivamente prorogata) e le parti vogliano procedere alla sottoscrizione di un ulteriore contratto.
In proposito va chiarito che non vi è completa coincidenza di ambito applicativo dei due istituti. L’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 infatti – introducendo il limite dei 36 mesi per un singolo contratto a tempo determinato – non consente più, così come in precedenza, la sottoscrizione di un primo contratto di durata anche superiore, fatte salve disposizioni di carattere speciale quali, ad esempio, quella relativa agli istituti pubblici ed enti privati di ricerca (v. retro) o quella di cui all’art. 10, comma 4, del Decreto, concernente i contratti a tempo determinato con i dirigenti.
Rimane tuttavia possibile stipulare più contratti a tempo determinato anche oltre il limite complessivo di 36 mesi ma solo nell’ambito delle ipotesi derogatorie già previste dall’art. 5, comma 4 bis e ter, del D.Lgs. n. 368/2001. Tale disposizione stabilisce infatti che il limite dei 36 mesi previsto in caso di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti è derogato, fra l’altro, in relazione alle attività stagionali ed a quelle individuate dalla contrattazione collettiva nonché in relazione all’ “ulteriore successivo contratto” da sottoscriversi presso la Direzione territoriale del lavoro di durata non superiore a quella stabilita dalle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (si ricorda in proposito l’accordo interconfederale tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL del 10 aprile 2008 secondo il quale “la durata del contratto a termine che può essere stipulato in deroga a quanto disposto dal primo periodo dell’art. 5, comma 4 bis, del D.Lgs. n. 368/2001… non può essere superiore ad otto mesi, salve maggiori durate eventualmente disposte dai contratti collettivi nazionali o da avvisi comuni stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei prestatori ih lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, firmatarie dei contratti collettivi nazionali di lavoro”). Peraltro, anche rispetto a tale “ulteriore successivo contratto” non sarà più necessaria l’individuazione delle cause giustificatrici dell’apposizione del termine.
Va poi ricordato che rimane immutata la disciplina degli intervalli tra due contratti a termine, intervalli pari a 10 o 20 giorni a seconda della durata del primo contratto (fino a o superiore a sei mesi). Peraltro, come già chiarito con circ. n. 35/2013, le disposizioni che richiedono il rispetto degli intervalli tra due contratti a termine, nonché quelle sul divieto di effettuare due assunzioni successive senza soluzioni di continuità, non trovano applicazione:
– nei confronti dei lavoratori impiegati nelle attività stagionali di cui al D.P.R. n. 1525/1963;
– in relazione alle ipotesi, legate anche ad attività non stagionali, individuate dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Diritti di precedenza
Le modifiche al D.Lgs. n. 368/2001 ad opera del D.L. n. 34/2014, nella formulazione derivante in sede di conversione, intervengono anche sulla disciplina dei diritti di precedenza.
Si ricorda anzitutto che l’art. 5. comma 4 quater, del D.Lgs. n. 368/2001 già prevede un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per i lavoratori a termine che abbiano prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, diritto esercitabile in relazione alle assunzioni effettuate dal datore di lavoro entro i successivi dodici mesi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine e fatte evidentemente salve diverse disposizioni della contrattazione collettiva.
Al riguardo il D.L. n. 34/2014 stabilisce che per le lavoratrici, il congedo obbligatorio di maternità di cui all’art. 16, comma 1, del D Lgs. n. 151 2001 (pari a 5 mesi e un giorno, v. ML nota 6 ottobre 2009, prot. n. 14451). intervenuto nell’esecuzione di un contratto a termine pressi) la stessa azienda, concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza in questione.
E inoltre previsto che alle medesime lavoratrici è riconosciuto, con le stesse modalità, il diritto di precedenza anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi, con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei precedenti rapporti a termine.
Da ultimo si segnala che, rispetto a tutti i diritti di precedenza disciplinati dai commi 4 quater e 4 quinquies dell’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 – ossia relativi alle assunzioni a tempo indeterminato, alle assunzioni a tempo determinato per le lavoratrici madri, alle assunzioni per lo svolgimento di attività stagionali – è previsto l’obbligo del datore di lavoro di richiamarli nell’atto scritto di cui all’art. 1, comma 2, del Decreto.
La mancata informativa sui diritti di precedenza non incide sulla possibilità che il lavoratore possa comunque esercitarli, né appare specificatamente sanzionata.
Somministrazione di lavoro
Anche nell’ambito della somministrazione di lavoro a tempo determinato trova applicazione la nuova formulazione dell’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001, che introduce una “acausalità” del contratto a tempo determinato sino ad una durata massima pari a 36 mesi.
Sulla scia di tale intervento il Legislatore ha quindi provveduto ad eliminare i primi due periodi del comma 4 dell’art. 20 del D.Lgs. n. 276/2003 – che condizionavano la somministrazione di lavoro a tempo determinato “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativa o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore” nonché il comma 5 quater del medesimo articolo, secondo il quale le ragioni giustificatrici del termine non erano necessarie “nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro”.
In tema di somministrazione si ritiene necessario chiarire che il nuovo quadro normativo lascia intatta la delega ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi in ordine alla ”individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione di lavoro a tempo determinato peraltro “in conformità” alla disciplina di cui all’art. 10 del D.Lgs. n. 368/2001. Da ciò consegue che l’individuazione di tali limiti è di esclusiva competenza dei contratti collettivi nazionali, senza che trovi applicazione il limite legale del 20% indicato dall’art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001. Né si ritiene applicabile la sanzione amministrativa di cui al nuovo art. 5, comma 4 septies, del D.Lgs. n. 368/2001, evidentemente riferita alla violazione dei limiti quantitativi di contratti a termine di cui al D.Lgs. n. 368/2001 e non anche ai limiti individuati ai sensi dell’art. 20, comma 4. del D.Lgs. n. 276/2003 (in materia di somministrazione, come detto, trova applicazione la specifica sanzione di cui all’art. 18, comma 3. del D.Lgs. n. 276/2003).
Appare inoltre opportuno precisare che il limite del 20% ai contratti a tempo determinato non può neanche riferirsi alle assunzioni a termine effettuate dalle stesse agenzie di somministrazione nell’ambito della propria attività. E pur vero che, ai sensi dell’art. 22, comma 2, del D.Lgs. n. 276/2003, “In caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro è soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368”, ma ciò è previsto solo “per quanto compatibile” e, certamente, un limite alle assunzioni a termine effettuate ai fini di somministrazione non sembra conciliarsi con la stessa natura di tale attività, legata più di ogni altra alle necessità e alle richieste – svariate quanto a competenze del personale da utilizzare e spesso limitate quanto al tempo di utilizzazione – del mondo imprenditoriale. Senza contare che il rinvio alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 368/2001 avviene con specifico riferimento al “rapporto di lavoro” tra somministratore e lavoratore, mentre il limite del 20% costituisce in realtà una condizione “esterna” al rapporto stesso quale presupposto per la sua instaurazione. Inoltre, non può non ricordarsi come la stessa Corte di Giustizia UE abbia evidenziato la necessità di tenere distinti il contratto a tempo determinato dalla somministrazione, in modo tale che i limiti al primo istituto non coinvolgano anche il secondo, attesa la distinzione delle relative fonti comunitarie (sentenza 11 aprile 2013, n. C-290/12).
Contratto di apprendistato
In relazione al contratto di apprendistato il D.L. n. 34/2014, nella formulazione risultante in sede di conversione, ha introdotto importanti modifiche in relazione al piano formativo individuale, alle c.d. clausole di stabilizzazione nonché alla disciplina del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale e di quello professionalizzante o di mestiere.
Piano formativo individuale
Il Decreto, come convertito dalla L. n. 78 2014, ha anzitutto previsto non solo la forma scritta del contratto e del patto di prova ma anche del piano formativo individuale (PFI), sia pur “in forma sintetica”.
Lo stesso inoltre, così come in passato, può essere definito “anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali”, sebbene non sia più previsto un termine di 30 giorni dalla stipula del contratto per la sua elaborazione.
Il Legislatore non ha dunque ritenuto necessario mantenere il citato termine, sia perché la sua esistenza era funzionale ad una verifica del piano formativo da parte degli enti bilaterali, comunque non indispensabile ai fini della legittimità del contratto (v. ML interpello n. 16/2012), su perché l’elaborazione del piano appare meno complessa in quanto avviene esclusivamente “in forma sintetica”. Resta ferma la validità delle vigenti clausole della contrattazione collettiva che, sulla scorta della precedente formulazione della norma, già prevedono detto termine nonché la possibilità per le parti sociali di reintrodurlo, attesa l’ampia delega che il Legislatore conferisce ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. a), del D.Lgs. n. 167/2011.
Da ultimo va chiarito che, conformemente ai contenuti delle linee guida del 20 febbraio 2014, il piano formativo “in forma sintetica” può limitarsi ad indicare esclusivamente la formazione finalizzata alla acquisizione di competenze tecnico professionali e specialistiche sul rispetto dei suoi contenuti, secondo quanto evidenziato già con circ. n. 5/2013, andrà a concentrarsi l’attività di vigilanza.
Clausole di stabilizzazione
Particolare rilievo assumono le modifiche al D.Lgs. n. 167/2011 in materia di clausole di stabilizzazione.
L’iniziale formulazione del D.L. n. 34/2014 aveva del tutto eliminato dette clausole mentre, in sede di conversione, la L. n. 78/2014 le ha reintrodotte ma secondo una disciplina del tutto nuova.
In particolare, il nuovo comma 3 bis dell’art. 2 del D.Lgs. n. 167/2011 stabilisce che “ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulali dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, di individuare limiti diversi da quelli previsti dal presente comma, esclusivamente per i datori di lavoro che occupano almeno cinquanta dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione, a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro”.
La disposizione, secondo una interpretazione che tiene conto anche della “evoluzione” della disciplina durante il suo iter in Parlamento (che, si ribadisce, aveva inizialmente del tutto eliminato le citate clausole), costituisce in realtà una limitazione alla delega, già conferita dal Legislatore con l’art. 2, comma 1 lett. i), del D.Lgs. n. 167/2014, alle parti sociali nell’introdurre clausole di stabilizzazione ai fini della assunzione di nuovi apprendisti.
In altri termini, le parti sociali potranno introdurre dette clausole solo per modificare il regime legale che prevede forme di stabilizzazione solo per i datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti (per il cui calcolo si rinvia alla circolare INPS n. 22/2007) e la cui violazione comporterà il “disconoscimento” dei rapporti di apprendistato avviati in violazione dei limiti (art. 2. comma 3 bis, D.Lgs. n. 167/2011). Per i datori di lavoro che occupano sino a 49 dipendenti, invece, la violazione di eventuali clausole di stabilizzazione previste dai contratti collettivi, anche già vigenti, non potrà evidentemente avere il medesimo effetto “trasformativo”.
Modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale in relazione al contratto di apprendistato disciplinato dall’art. 3 del D.Lgs. n. 167/2011 il Legislatore ha anzitutto previsto che “fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, al lavoratore è riconosciuta una retribuzione che tenga conto delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché delle ore di formazione almeno nella misura del 35% del relativo monte ore complessivo.
Tale disposizione, ferma restando una diversa disciplina da parte dei contratti collettivi anche ai sensi dell‘art. 2, comma 1 lett. c), del Decreto del 2011, costituisce dunque un limite minimo alla retribuzione da corrispondere al lavoratore, la quale non potrà essere al di sotto di quella che risulterebbe in relazione ad una sommatoria delle ore di lavoro effettivamente prestate nonché di almeno il 35% delle ore di formazione.
All’art. 3 del D.Lgs. n. 167/2011 è inoltre introdotto un comma 2 quater finalizzato ad ampliare la facoltà della contrattazione collettiva di intervenire su tale tipologia contrattuale. E infatti previsto che “per le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro, i contratti collettivi di lavoro stipulali da associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono prevedere specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali”. Trattasi in realtà di una disposizione che, analogamente a quanto già previsto dall’art. 4, comma 5. del D.Lgs. n. 167 in materia di apprendistato professionalizzante, vuole sollecitare un “utilizzo” del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale anche a tempo determinato e quindi anche nell’ambito delle attività stagionali.
Modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere.
Anche in relazione alla disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante il Legislatore ha introdotto importanti modifiche.
L’iniziale formulazione dell ‘art. 4 del D.Lgs. n. 167/2011 (come modificato dal D.L. 34/2014 non ancora convertito), secondo cui la formazione di tipo professionalizzante e di mestieri “poteva” essere integrata da quella di base e trasversale, non ha trovato conferma in sede di conversione.
Ne deriva, anzitutto, che la formazione di base e trasversale rimane, nei limiti di quanto stabilito dalle Regioni e Province autonome, obbligatoria. Tale obbligatorietà va peraltro definita ai sensi delle già citate linee guida del 20 febbraio 2014, secondo le quali l’offerta formativa pubblica è da intendersi, per l’appunto, obbligatoria nella misura in cui:
– sia disciplinata come tale nell’ambito della regolamentazione regionale, anche attraverso specifici accordi;
– sia realmente disponibile per l’impresa e per l’apprendista, intendendosi per “disponibile ‘”un ‘offerta formativa formalmente approvata e finanziata dalla pubblica amministrazione competente che consenta all’impresa l’iscrizione all’offerta medesima affinché le attività formative possano essere avviate entro 6 mesi dalla data di assunzione dell’apprendista;
– ovvero, “in via sussidiaria e cedevole”, sia definita obbligatoria dalla disciplina contrattuale vigente.
Ciò premesso, è ora previsto che “la Regione provvede a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell ‘offerta formativa pubblica, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarati disponibili, ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014”.
Tale adempimento da parte delle Regioni e Province autonome, da considerarsi obbligatorio, vuole costituire un elemento di certezza per le imprese che, successivamente alla comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro – che il Legislatore chiarisce essere la comunicazione al Centro per l’impiego, già prevista ai sensi dell’art. 9 bis del D.L. n. 510/14% – saranno destinatarie di una informativa completa sui corsi organizzati, con indicazione delle sedi e del calendario.
La scelta di individuare detto termine produce evidentemente effetti anche sotto il profilo delle responsabilità datoriali, in quanto la mancata comunicazione nei termini previsti non consente di configurare alcuna responsabilità del datore di lavoro – così come previsto dall’art. 7, comma 1, del D.Lgs. n. 167/2011 – in caso di inadempimento degli obblighi formativi.
Conseguentemente, il personale ispettivo si asterrà dall’applicazione della sanzione per omessa formazione trasversale nelle ipotesi in cui l’informativa in questione non sia intervenuta entro i 45 giorni successivi alla comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro.
Del resto, se così non fosse, la nuova disciplina verrebbe svuotata di significato. Con intervento infatti il Legislatore ha voluto responsabilizzare Regioni e Province autonome nel “pubblicizzare” l’attivazione dei corsi che, del resto, possono considerarsi effettivamente disponibili solo in quanto siano comunicati e sia dunque consentito al datore di lavoro, come previsto nelle linee guida, “l’iscrizione all ‘offerta medesima”.
In ragione di quanto sopra le Direzioni territoriali del lavoro potranno prendere contatto con i competenti uffici delle Regioni al fine di poter disporre periodicamente della lista dei datori di lavoro ai quali è stata trasmessa, nei termini di legge, l’informativa in questione.
Disciplina transitoria
Le nuove disposizioni di cui si è detto trovano esclusiva applicazione, così come previsto dall’art. 2 bis del D.L n. 34/2014, ai rapporti di lavoro costituiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del Decreto e cioè dal 21 marzo 2014.
Anche in tal caso il Legislatore fa tuttavia salvi “gli effetti già prodotti dalle disposizioni introdotte dal presente Decreto” nella sua formulazione originaria, nella quale non era prevista la forma scritta del piano formativo individuale e non erano più previste clausole di stabilizzazioni.
Ciò vuol significare, ad esempio, che nel periodo 21 marzo – 19 maggio 2014, l’eventuale mancata formalizzazione del piano formativo individuale o l’inosservanza di clausole di stabilizzazione non possono ritenersi produttive di alcuna conseguenza sul piano civilistico o amministrativo.