La normativa sulla dirigenza pubblica è caratterizzata da un quadro in continua evoluzione ,che ruota, attorno a tre elementi:
-il rapporto dei dirigenti con il decisore politico;
-la loro collocazione nel disegno organizzativo e nel processo decisionale delle amministrazioni di appartenenza;
-la loro condizione di soggetti ad un tempo attivi e passivi nella gestione dei rapporti di lavoro nelle stesse amministrazioni.
Il citasto quadro ha preso le mosse dal d.P.R. n. 478/1972, istitutivo della dirigenza statale, passando attraverso le leggi e i decreti con i quali si è realizzata, in due fasi, la c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego (l. delega n. 421/1992 e d.lgs. n. 29/1993 e poi l. delega n. 59/1997 e d.lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998), successivamente trasfusi nel d.lgs. n. 165/2001; per arrivare, dopo una serie di ulteriori provvedimenti (fra i quali si segnala la l. n. 145/2002), alla l. delega n. 15/2009 e al conseguente d.lgs. n. 150/2009. ed anche in altri atti legislativi – compresi, specie negli ultimi anni, quelli riguardanti manovre finanziarie – in ritrovano disposizioni che interessano la tematica dirigenziale.L’ultimo tassello del complesso quadro normativo sulla materia è rappresentato dalla legge n.190/12 e dal decreto leg.vo n.62/2013
Pur nella consapevolezza della presenza nel settore pubblico di diversi tipi di dirigenze: quelle regionali e locali, ed altre dotate di particolari connotati, come quella scolastica e quella sanitaria. per esigenze di sinteticità dell’esposizione,in qyìuesta sede ci si intratterrà essenzialmente sulle previsioni concernenti la dirigenza amministrativa dello Stato, soffermandosi, in particolare, sulle novità apportate dal d.lgs. n. 150/2009
D’altronde ,va considerato che, pur con tutte le differenze e le specificità, le altre dirigenze sono rette da modelli regolativi largamente dipendenti da quello della dirigenza statale: questo, al di là della questione relativa alla perdurante vigenza, anche dopo la revisione costituzionale intervenuta con la l. cost. n. 3/2001, dell’art. 27 del d.lgs. n. 165/2001, che impone(va) alle amministrazioni non statali di adeguare i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità, ai principi ricavabili dalle norme dettate per la dirigenza dello Stato dallo stesso decreto.
Il primo aspetto da trattare riguarda la distinzione fra politica e amministrazione,nel senso che il regime della dirigenza pubblica nell’ordinamento italiano è caratterizzato da una netta distinzione fra le sue funzioni e quelle spettanti all’autorità politica
Il punto di arrivo del percorso normativo sul predetto aspetto è costituito dall’art. 4 del d.lgs. n. 165/2001, che assegna all’organo di governo le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di verifica della rispondenza dei risultati dell’attività e della gestione amministrativa agli indirizzi impartiti, individuando gli atti principali attraverso i quali si esplicano tali funzioni. L’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi e la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa sono, invece, demandate in via esclusiva ai dirigenti, che assumono la responsabilità dell’attività svolta e dei relativi risultati; tali attribuzioni dei dirigenti sono derogabili solo ad opera di specifiche ed espresse previsioni legislative.
Tuttavia ,semìna indugiasre su rigidi schematiosmi al riguardo ,sembra confacente riconoscere che le due funzioni sono complementari, ed implicano momenti di raccordo e forme di indispensabile collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ruoli ed evitando ingerenze e prevaricazioni. Fra l’organo di governo e i dirigenti intercorre un rapporto non più di carattere gerarchico, bensì di direzione: è emblematico il fatto che l’autorità politica anche in caso di inerzia del dirigente nello svolgimento dei suoi compiti non possa sostituirsi ad esso, ma solo nominare come commissario ad acta un altro dirigente.
Con le norme in questione si è ricercato – e in buona misura realizzato – un punto di equilibrio fra il principio di responsabilità politica e quello di imparzialità dell’amministrazione
Da questo punto di vista, i profili di criticità riguardano soprattutto il nesso strutturale che intercorre fra gli organi di governo e i dirigenti, specie in riferimento ai poteri di nomina e di rimozione di questi ultimi dagli incarichi ricoperti: alcuni, in proposito, hanno avanzato l’idea di recidere del tutto questo nesso; ma ciò, in un sistema che riconosce alla dirigenza piena e intangibile autonomia funzionale, finirebbe per entrare in contrasto con il principio democratico
Circa i poteri organizzativi e gestionali dei dirigenti è da dire che a aquest’ultimi spetta, oltre all’adozione degli atti amministrativi, la gestione delle amministrazioni, mediante l’esercizio di autonomi poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Tale attività si estrinseca, fondamentalmente, attraverso l’assunzione «in via esclusiva» delle determinazioni per l’organizzazione degli uffici e delle misure inerenti al rapporto di lavoro dei dipendenti. In base all’art. 5, co. 2, d.lgs. 165/2001 i dirigenti adottano le loro decisioni esercitando «la capacità e i poteri del privato datore di lavoro»: quindi, non solo le scelte riguardanti la gestione del personale, ma anche quelle di ordine organizzativo sono poste in essere attraverso atti di natura privatistica.
Chiaramente, la potestà organizzativa dei dirigenti si esplica nell’ambito di quanto previsto dalle leggi e dagli atti pubblicistici (normativi o amministrativi) che, sulla base dei principi costituzionali, definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici: sussiste, comunque, un significativo spazio di autonomia operativa per i soggetti preposti alla gestione, rafforzato anche dalla forte restrizione che con il d.lgs. n. 150/2009 hanno subito gli istituti della partecipazione sindacale, esplicitamente ridotti alla sola informazione (pur non potendosi, in realtà, escludere la sopravvivenza o la reviviscenza di forme di consultazione, formale o quantomeno informale).
Sulla questione dell’articolazione della dirigenza statale ,il d.lgs. n. 165/2001 prevede che i dirigenti delle amministrazioni dello Stato, in precedenza distinti in diverse qualifiche (tre nel d.P.R. n. 748/1972 e due nell’originaria versione del d.lgs. n. 29/1993), sono collocati all’interno di un’unica qualifica. Questo dato non ha un valore meramente formale, né nasce dalla sottovalutazione del ruolo da riconoscere agli elementi più esperti e qualificati all’interno della compagine dirigenziale, ma è la naturale conseguenza del passaggio da una concezione della dirigenza come status, come carriera, ad una incentrata sul dato funzionale: cioè, di quella che è stata autorevolmente definita come la sostituzione della logica burocratica con quella dell’organizzazione.
L’inserimento di tutti i dirigenti nella medesima qualifica non comporta, peraltro, un «appiattimento» della posizione dei soggetti interessati che, come detto, disconosca differenze di esperienza e competenza: infatti, la qualifica unica è articolata al suo interno in due fasce. Peraltro, in relazione alla logica appena ricordata esse sono istituite essenzialmente in funzione dell’attribuzione ai dirigenti degli incarichi, cioè dei compiti da svolgere.
Su tali basi, la scelta, effettuata dal d.lgs. n. 150/2009, di rubricare gli articoli sull’accesso alle due fasce (artt. 28 e 28 bis del d.lgs. n. 165/2001) come se fossero riferiti a due distinte qualifiche appare frutto di un fraintendimento sulla natura delle fasce stesse: come si spiegherebbe, altrimenti, che dirigenti aventi due diverse qualifiche possono essere richiamati a ricoprire, in larga misura, lo stesso tipo di funzioni?
Per l’accesso alla qualifica dirigenziale ed i passaggi di fascia si nota che nelle amministrazioni statali e negli enti pubblici non economici la qualifica dirigenziale si acquisisce attraverso due diversi canali di accesso: concorso pubblico per esami o corso-concorso selettivo di formazione.
I concorsi, indetti dalle singole amministrazioni, sono riservati a dipendenti di ruolo, muniti di laurea, che abbiano maturato una determinata anzianità di servizio (normalmente di cinque anni) nelle posizioni funzionali più elevate; sono ammessi anche dirigenti di altre strutture pubbliche e cittadini italiani con qualificate esperienze di lavoro presso enti od organismi internazionali.
La partecipazione al corso-concorso, gestito dalla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, è aperta a soggetti con un titolo di studio universitario di livello specialistico: questo sistema coniuga il momento della selezione con una consistente fase formativa, ed è finalizzato ad inserire nei ranghi della dirigenza soggetti giovani e con una base culturale innovativa.
Fino all’approvazione del d.lgs. n. 150/2009 l’ordinamento prevedeva una sola modalità per i passaggi di fascia nei ruoli dirigenziali dello Stato: transitavano nella prima fascia tutti i dirigenti di seconda fascia che avessero ricoperto, senza incorrere in sanzioni per responsabilità dirigenziale, un incarico di livello generale per almeno tre anni.
Il decreto del 2009, all’evidente scopo di evitare un “congestionamento” della fascia più elevata, in primo luogo ha aumentato detto periodo da tre a cinque an Inoltre, ha statuito che in caso di primo conferimento a dirigenti di seconda fascia di incarichi di uffici dirigenziali generali, la durata dell’incarico è pari a tre anni: il che comporta che per entrare nella prima fascia occorrono almeno due incarichi, o una conferma del primo incarico.
Al tempo stesso, però, il d.lgs. n. 150/2009 ha introdotto un altro sistema per l’accesso alla prima fascia: infatti, per il 50% dei posti disponibili esso avverrà tramite concorso pubblico per titoli ed esami indetto dalle singole amministrazioni. Si tratta di una innovazione apprezzabile, anche se in parte inficiata da una successiva previsione secondo la quale, qualora «lo svolgimento dei relativi incarichi richieda specifica esperienza e peculiare professionalità», alla copertura di una quota di posti fino alla metà di quelli da mettere a concorso si può provvedere, tramite apposita procedura concorsuale, con contratti di diritto privato di durata non superiore a tre anni.
La definizione delle modalità di conferimento degli incarichi di funzioni, unitamente alle vicende successive alla loro attribuzione, costituisce uno degli aspetti più complessi e più discussi del sistema regolativo della dirigenza pubblica: non a caso, il legislatore è ritornato numerose volte sul testo dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, senza approdare, peraltro, a soluzioni definitive e completamente appaganti.
Il processo di evoluzione normativa che va dal d.lgs. n. 29/1993 al d.lgs. n. 150/2009, ha consentito una progressiva precisazione, anche sotto l’impulso della giurisprudenza, dei criteri che presiedono all’individuazione dei soggetti affidatari degli incarichi di direzione: il testo dell’art. 19, co. 1, attualmente in vigore elenca una serie di elementi che innestano su dati di ordine oggettivo (natura e caratteristiche degli obiettivi prefissati e grado di complessità dell’ufficio da ricoprire) la verifica delle caratteristiche soggettive dei destinatari (attitudini e capacità professionali, risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e relativa valutazione, specifiche competenze organizzative, esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche).
A seguito della l. n. 145/2002, invece, non è più presente nella norma il criterio della rotazione, in precedenza introdotto al fine di garantire flessibilità nell’utilizzazione di una dirigenza concepita fisiologicamente come «generalista» e, quindi, in grado di esercitare (e di accrescere) la sua professionalità operando in sedi e in ambiti funzionali differenti. Peraltro, al conferimento degli incarichi e al passaggio ad incarichi diversi non si applica l’art. 2103 c.c., per cui essi sono da considerare fra loro equivalenti: il che garantisce un significativo margine di discrezionalità ai soggetti preposti alla scelta.
Per gli incarichi relativi agli uffici di massimo livello riguardanti, nei ministeri, i segretari generali e i capi dipartimento, che coordinano gli uffici di livello dirigenziale generale, ed a quelli di livello generale la decisione è adottata con atti dell’autorità politica, mentre gli incarichi di livello meno elevato sono attribuiti dal dirigente di livello generale .
Il d.lgs. n. 150/2009 contiene, sotto il profilo procedurale, un’importante novità: l’amministrazione prima di assegnare gli incarichi deve pubblicare un avviso indicante il numero e la tipologia dei posti di funzione che si rendono disponibili ed i criteri di scelta, e deve acquisire e valutare le disponibilità dei dirigenti interessati. Si tratta di una indicazione da valutare positivamente, non solo in omaggio a criteri di trasparenza e pubblicità, ma anche in funzione del perseguimento dei principi di imparzialità e buon andamento nella selezione dei soggetti più adatti a guidare le diverse articolazioni della macchina amministrativa.
Si è a lungo discusso, in rapporto alle variazioni intervenute nelle disposizioni normative, attorno alla natura giuridica degli atti con i quali avviene formalmente l’affidamento degli incarichi. A seguito di una modifica apportata dalla l. n. 145/2002, il testo vigente dell’art. 19, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 prevede che l’incarico viene conferito con un «provvedimento», nel quale sono determinati l’oggetto, gli obiettivi da conseguire e la durata, e che è accompagnato da un contratto individuale, in cui è fissato il trattamento economico legato alla posizione ricoperta. È fuor di dubbio che l’intenzione del legislatore, nell’adottare questa formulazione, fosse quella di riportare la vicenda in un alveo pubblicistico, rovesciando il modello adottato nella precedente versione della norma (derivante dal d.lgs. n. 80/1998), dove i contenuti dell’incarico erano complessivamente definiti attraverso un atto contrattuale. Negli anni successivi si è, però, affermata e consolidata nella giurisprudenza della Cassazione un posizione in base alla quale l’atto in questione, pur essendo qualificato come provvedimento, non ha natura amministrativa, bensì va considerato un atto unilaterale di diritto privato: ora, il fatto che il legislatore nel 2009, nel ridisciplinare ampiamente la materia del lavoro pubblico, pur essendo consapevole di questo orientamento, non abbia sentito la necessità di intervenire sul punto, può essere visto come una tacita accettazione dell’assunto giurisprudenziale.
Naturali destinatari degli incarichi sono i dirigenti appartenenti ai ruoli delle amministrazioni dello Stato: gli incarichi «apicali» possono essere attribuiti solo ai dirigenti di prima fascia, ai quali è riservato anche il 30% degli incarichi di uffici dirigenziali generali, mentre il restante 70% di questi ultimi può essere conferito anche a dirigenti di seconda fascia
Nell’art. 19, peraltro, è prevista anche la possibilità di ricoprire incarichi dirigenziali, entro determinate percentuali, ricorrendo a dirigenti di altre amministrazioni o di organi costituzionali (co. 5 bis) ovvero – attraverso la stipula di un contratto a tempo determinato – a persone, estranee alla dirigenza pubblica, aventi particolare e comprovata qualificazione professionale (co. 6). L’utilizzazione concreta di quest’ultima possibilità è spesso andata al di là dell’esigenza di consentire alle amministrazioni di fruire di specifiche competenze reperibili al di fuori delle risorse umane a loro disposizione: da un lato, si è fatto ricorso a soggetti esterni anche quando sarebbe stato possibile fare affidamento su dirigenti di ruolo (con evidenti effetti di demotivazione degli stessi); dall’altro, si è spesso dato luogo ad una “promozione sul campo”, sia pure in via temporanea, di dipendenti delle stesse amministrazioni privi di qualifica dirigenziale.
Il d.lgs. n. 150/2009 ha in qualche misura cercato di razionalizzare l’uso di questo strumento, prevedendo che il ricorso agli esterni debba essere motivato e circoscritto ai soli casi nei quali la professionalità richiesta non sia rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione, ma – disattendendo in parte quanto richiesto dalla l. n. 15/2009 – non ha ridotto (se non in misura simbolica) le percentuali degli incarichi in questione, non ha posto limiti alla loro reiterabilità e ha confermato la possibilità di attribuirli a personale interno alla stessa amministrazioni
Il modello scaturito dalle riforme degli anni Novanta innesta sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei dirigenti l’assegnazione di incarichi di funzioni dirigenziali aventi un carattere di temporaneità: dopo una serie, piuttosto tormentata e contraddittoria, di vicende normative attualmente la durata degli incarichi è stabilita in un minimo di tre anni e un massimo di cinque anni.
Fin dall’introduzione, con il d.lgs. n. 80/1998, di un limite temporale per gli incarichi, si è sviluppato un ampio dibattito, nel quale si è paventato il rischio che ne possa derivare una “precarizzazione” della posizione dei dirigenti, ed un loro assoggettamento alla volontà dei vertici politici o, comunque, di chi alla scadenza ha il potere di confermarli o meno nei loro incarichi, con conseguenze negative sull’esercizio imparziale delle loro funzioni.
Sulla questione si è pronunciata la Corte Costituzionale, secondo la quale l’attribuzione di incarichi dirigenziali con una durata predefinita – che trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di garantire una maggiore dinamicità nella gestione della risorsa dirigenziale, superando la tradizionale “concezione proprietaria” del posto – non è incompatibile con l’assicurazione di un imparziale, efficace ed efficiente svolgimento dell’attività amministrativa, purché il termine stabilito non sia eccessivamente breve.
La previsione di incarichi a tempo determinato, sicuramente, può suscitare dubbi e perplessità, soprattutto per gli abusi che possono verificarsi (e, in effetti, non di rado si sono verificati) nella prassi applicativa: è, però, improprio vedere in tale caratteristica degli incarichi una forma di spoils system, posto che qui non c’è un automatismo fra rinnovo dei vertici politici e rimozione dei dirigenti.
In realtà, per svolgere un ragionamento compiuto sull’opzione del legislatore in favore di incarichi dirigenziali “a tempo”, e per valutare se e in che misura ciò possa incidere sulla capacità del dirigente di agire in modo autonomo e imparziale, occorre verificare quali siano le indicazioni normative riguardanti la revoca anticipata degli incarichi e la decisione di confermare o meno gli incarichi dopo la loro scadenza.
Dopo le modifiche apportate all’art. 19, d.lgs. n. 165/2001 dal d.lgs. n. 150/2009 – modifiche esplicitamente ispirate all’impostazione “garantista” adottata (soprattutto a partire dal 2007) dalla giurisprudenza costituzionale, che ha strettamente collegato le ipotesi di rimozione dei dirigenti ad una verifica sul loro operato – sembrava ormai definitivamente acquisito che gli incarichi possono essere revocati anticipatamente solo nelle ipotesi di accertata responsabilità dirigenziale (su cui v. oltre). Questa conclusione parrebbe, però, venir messa in discussione da una previsione (art. 1, co. 8) inopinatamente inserita nel d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011, contenente misure di carattere finanziario, secondo la quale «al fine di assicurare la massima funzionalità e flessibilità, in relazione a motivate esigenze organizzative» le pubbliche amministrazioni possono disporre, nei confronti del personale con qualifica dirigenziale, «il passaggio ad altro incarico prima della data di scadenza dell’incarico ricoperto prevista dalla normativa o dal contratto»: in questo modo, di fatto – dietro lo schermo delle esigenze organizzative – si rimette nelle mani dell’amministrazione la sorte dei dirigenti titolari di incarichi di funzioni, che possono vederseli modificati in qualunque momento a prescindere da una valutazione della loro prestazione.
Una vicenda in parte analoga ha interessato anche i casi di mancata conferma degli incarichi dopo la scadenza: qui, non si poteva adottare – pena la “cristallizzazione” delle posizioni funzionali – un automatismo che garantisse al dirigente, in assenza di valutazione negativa, di essere comunque confermato nell’incarico precedentemente ricoperto, né si poteva impedire alle amministrazioni di rimodulare l’articolazione degli incarichi dirigenziali in occasione della revisione dei propri assetti organizzativi; ma era auspicabile che la mancata conferma fosse accompagnata da cautele procedurali a tutela degli interessati. E, in effetti, il d.lgs. n. 150/2009 prevedeva che l’amministrazione laddove avesse deciso di non confermare l’incarico a un dirigente dovesse darne «idonea e motivata comunicazione al dirigente stesso con un preavviso congruo, prospettando i posti disponibili per un nuovo incarico». Ora, pure questa formulazione è stata modificata in senso peggiorativo da una disposizione inclusa in un provvedimento di ordine finanziario: l’art. 9, co. 32, del d.l. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010, consente alle amministrazioni di non confermare nell’incarico il dirigente, pur non valutato negativamente, senza alcun preavviso e di assegnargli un nuovo incarico anche di valore economico inferiore.
Si può a ragion veduta affermare che proprio questi due estemporanei interventi legislativi del 2010 e del 2011, più che il carattere temporalmente definito degli incarichi, rischiano di creare una situazione di “instabilità” dei dirigenti rispetto all’autorità abilitata ad assegnare o sottrarre ad essi la titolarità degli uffici.
Il sistema di valutazione dei comportamenti tenuti e dei risultati conseguiti dai dirigenti nell’espletamento delle loro funzioni costituisce l’elemento di chiusura di tutto l’ordinamento della dirigenza pubblica, in quanto i suoi esiti condizionano (o dovrebbero condizionare) in misura determinante molti dei suoi aspetti più rilevanti, dai criteri di conferimento degli incarichi alla revoca degli stessi, dagli istituti premiali alla responsabilità.
La valutazione dei dirigenti, prima disciplinata dal d.lgs. n. 286/1999, ora è oggetto di una serie di previsioni del d.lgs. n. 150/2009, che la inquadrano nel nuovo sistema di misurazione e valutazione della performance amministrativa (del quale, per la verità, i dirigenti sono protagonisti non solo passivi ma anche attivi, come soggetti preposti alla valutazione del personale).
La prestazione individuale dei dirigenti è valutata ,in base all’art.9 ,annualmente in riferimento :
«a) agli indicatori di performance relativi all’ambito organizzativo di diretta responsabilità;
b) al raggiungimento di specifici obiettivi individuali;
c) alla qualità del contributo assicurato alla performance generale della struttura, alle competenze professionali e manageriali dimostrate;
d) alla capacità di valutazione dei propri collaboratori, dimostrata tramite una significativa differenziazione dei giudizi»
La valutazione dei dirigenti di vertice è effettuata dall’organo di indirizzo politico-amministrativo, sulla base delle proposte dell’Organismo indipendente di valutazione (OIV) istituito in ogni amministrazione ai sensi dell’art. 14; per gli altri dirigenti, anche se il testo legislativo non è esplicito sul punto, è da ritenere che la competenza spetti al dirigente di livello superiore, mentre l’OIV è chiamato a formulare una graduatoria delle valutazioni individuali del personale dirigenziale, distinto per livello generale e non.
Come detto, le risultanze della valutazione rilevano, tra l’altro, ai fini della responsabilità dirigenziale, che si affianca alle altre forme di responsabilità: essa (in base al testo attuale dell’art. 21, d.lgs. n. 165/201, anch’esso modificato dal d.lgs. n. 150/2009) insorge nel caso in cui siano imputabili al dirigente il mancato raggiungimento degli obiettivi – verificato, appunto, attraverso il sistema valutativo – ovvero l’inosservanza delle direttive tramite le quali si definiscono gli indirizzi per l’azione amministrativa. L’accertamento della responsabilità dirigenziale comporta l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico o, in base alla gravità dei casi, la revoca dell’incarico con collocazione del dirigente a disposizione dei ruoli, fino ad arrivare al recesso dal rapporto di lavoro. L’irrogazione di queste sanzioni è subordinata a garanzie procedurali, quali la contestazione dell’addebito e il diritto al contraddittorio; il decreto del 2009 ha, invece, depotenziato – in contraddizione con quanto richiesto dalla l. delega 15/2009 – il ruolo del Comitato dei garanti, ridotto ad una mera funzione consultiva non vincolante.
Infine, sempre il d.lgs. n. 150/2009 ha introdotto un’altra, specifica responsabilità del dirigente per la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato al proprio ufficio, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione.
Lo scorso 28 novembre 2012 è entrata in vigore Legge 6 novembre 2012, n. 190 recante “disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”.
Con le nuove disposizioni, il legislatore si propone un’ambiziosa riforma dell’intero apparato normativo, sul duplice binario dell’intervento preventivo e dell’azione repressiva. Da un lato, infatti, si stabiliscono rigide regole comportamentali per i pubblici dipendenti e criteri di trasparenza dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, s’introducono norme penali dirette a colpire, in modo più selettivo e afflittivo, le condotte illecite sul terreno della corruzione.
Tra le novità introdotte dalla citata Legge n. 190/2012 rilevanti ai fini del D.lgs. 231/2001, oltre alla “rimodulazione” di alcuni reati – presupposto in materia di corruzione – quali la corruzione per atto d’ufficio che diventa “corruzione per l’esercizio della funzione” (art. 318 c.p.) ovvero la concussione (art. 317 c.p.) – si segnala l’estensione dell’ambito di applicazione della disciplina della responsabilità amministrativa degli enti alle seguenti fattispecie di reato:
– il nuovo reato di “induzione indebita a dare o promettere utilità” (art. 319-quater c.p.);
– il reato di “corruzione tra i privati” nei casi previsti dal terzo comma dell’art. 2635 c.c., come riformulato dalla legge in parola.
E’ rimasto, invece, escluso dall’ambito di applicazione della responsabilità amministrativa di cui al D.Lgs. 231/2001 il nuovo reato di “traffico di influenze illecite” di cui all’articolo 346-bis c.p.1
Il nuovo reato di “induzione indebita a dare o promettere utilità” (art. 319-quater c.p.) punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a fare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità. Nell’“induzione” rientra ogni comportamento che sia comunque caratterizzato da un abuso dei poteri che valga ad esercitare una pressione psicologica sulla “vittima”. È punito altresì il soggetto che dà o promette denaro o altra utilità.
La Legge n. 190/2012 ha inoltre modificato l’art. 2635 c.c., ora rubricato “corruzione tra privati”.
Sono soggetti attivi del reato:
A) amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci, liquidatori di una società;
B) coloro che sono sottoposti alla direzione e alla vigilanza dei soggetti indicati al precedente punto A).
Il reato si configura quando il soggetto attivo, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compie o omette atti, in violazione degli obblighi inerenti al suo ufficio o degli obblighi di fedeltà, un documento alla società cui appartiene. Il reato è sanzionato con la pena da 1 a 3 anni per i soggetti di cui al punto A) e reclusione fino a 1 anno e 6 mesi per i soggetti di cui al punto B).
Le stesse pene sono previste a carico di chi dà o promette denaro o altra utilità. La pena è raddoppiata se la società “danneggiata” è quotata in Italia o in un altro Stato dell’UE. Il reato è procedibile a querela della persona offesa (cioè la società che subisce il danno) ma anche d’ufficio se dal fatto deriva una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi.
La corruzione tra privati, divenuta reato-presupposto della responsabilità amministrativa ex D.lgs. 231/2001, costituirà fonte di responsabilità per l’ente di appartenenza dell’autore della corruzione. La responsabilità sarà limitata all’ente del quale è esponente il corruttore. Potrà dunque configurarsi la responsabilità dell’ente nell’ipotesi in cui il corruttore (soggetto apicale o “sottoposto”) dia o prometta denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma dell’articolo 2635 c.c. appartenente a un’altra società nell’interesse o a vantaggio dell’ente di appartenenza.
La fattispecie criminosa appena analizzata è destinata ad avere un impatto significativo sui modelli organizzativi adottati dagli enti ai sensi del D.lgs. 231/2001.
Sul punto, in attesa d’indicazioni fornite dalle associazioni rappresentative degli enti e/o dalle altre fonti disponibili, si può ragionevolmente ritenere che le misure di controllo da adottare per l’adeguamento dei predetti modelli e volte a prevenire il reato di “corruzione tra privati” potrebbero, in prima istanza, essere individuate tra quelle già previste con riferimento al rischio di commissione dei reati contro la P.A.
Sotto questo profilo, nell’ambito delle attività di aggiornamento dei modelli organizzativi con riferimento al reato di “corruzione tra privati”, potrebbe essere opportuno:
– agire sui controlli necessari a garantire trasparenza nel C.D. “ciclo attivo” prevendendo, ad esempio, una stratificazione nei poteri autorizzativi dei processi di vendita e una distinzione di ruoli (segregation of duties), nell’ambito dell’organizzazione, tra responsabilità nei rapporti con il cliente, responsabilità nella definizione del prezzo di offerta e delle condizioni e tempi di pagamento (e relative penali), responsabilità nella scontistica e responsabilità nella definizione di eventuali risoluzioni transattive in caso di contestazioni;
– agire sui controlli necessari a garantire trasparenza nel cd. “ciclo passivo”, verificando i processi che consentano, da un lato, la materializzazione del beneficio derivante dall’accordo corruttivo e, dall’altro lato, la formazione della provvista di danaro necessaria all’esecuzione dell’attività corruttiva;
– implementare flussi informativi diretti all’Organismo di Vigilanza in merito a operazioni di effettuate “fuori soglia” o in deroga agli standard adottati dalla società;
– individuare – ove possibile – le “altre utilità” che possano costituire contropartita di un eventuale accordo corruttivo (omaggi a clienti, gadgettistica, sponsorizzazioni a club, associazioni, ecc., riconducibili ad un ente/cliente o ai suoi singoli manager).
Sulla Gazzetta Ufficiale del 5 aprile 2013 il decreto legislativo 14, mmarzo 2013 n. 33 recante disposizioni in materia di
“Riordino della disciplina
riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte
delle pubbliche amministrazioni”.
Il provvedimento, predisposto in attuazione dei principi e criteri di delega previsti
dall’articolo 1, comma 35 della legge 6 novembre 2012, n. 190 recante “Dispos
izioni perla prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, riordina, in un unico corpo norma
tivo, le numerose disposizioni legislative in materia di obblighi di informazione,
trasparenza e pubblicità da parte delle
pubbliche amministrazioni, susseguitesi nel tempo e
sparse in testi normativi non
sempre coerenti con la materia in argomento.
Tuttavia, il decreto legislativo non si limita alla
sola ricognizione e alcoordinamento delle disposizioni vigenti ma modific
a e integra l’attuale quadro
normativo, prevedendo ulteriori obblighi di pubblic
azione di dati ed ulteriori adempimenti.
Tra le novità più rilevanti introdotte dal testo di
legge, aventi un forte impatto sugli
enti locali, si segnalano:
l’istituzione del diritto del accesso civico,
-l’obbligo di predisporree pubblicare il Piano triennale per la trasparenza,
-l’obbligo di nominare il Responsabile
della trasparenza in ogni amministrazione,
-la rivisitazione della disciplina in materia di
trasparenza sullo stato patrimoniale di politici e
amministratori pubblici e sulle loro
nomine,
-l’obbligo di definire nella home page del sito istituzionale di ciascun Ente
un’apposita sezione denominata “Amministrazione trasparente”
.
In particolare, il decreto introduce, disciplinandone anche le modalità, l’istituto
dell’ accesso civico, che consiste nella potestà attribuita a tutti i c
ittadini, senza alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva e
senza obbligo di motivazione, di avere accesso e libera consultazione a tutti gli atti – d
ocumenti, informazioni o dati – della pubblica amministrazione per i quali è prevista la
pubblicazione.
In tal senso, su ognisito istituzionale dovrà essere resa accessibile e
facilmente consultabile una sezioneapposita denominata “
Amministrazione trasparente” in cui saranno pubblicati
documenti, informazioni o dati per un periodo di 5
anni e a cui il cittadino avrà libero accesso.
Inoltre, ogni amministrazione dovrà pubblicare sulproprio sito, in una apposita
sezione, i riferimenti normativicon i relativi link alle norme di legge statale pu
bblicatenella banca dati «Normattiva» che ne regolano l’istituzione, l’organizzazione e l’attività.
Devono altresì essere pubblicate le direttive, le circolari, i programmi e le istruzioni
emanati dall’amministrazione e ogni atto che dispone in generale sulla organizzazione,
sulle funzioni, sugli obiettivi, sui procedimenti ovvero nei quali si determina
l’interpretazione di norme giuridiche che le riguardano o si dettano disposizioni per
l’applicazione di esse, ivi compresi i codici di condotta.
Diventa obbligatorio, poi, per tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, del
d.lgs. n. 165 del 2001 e dunque anche per gli Enti
Locali, l’adozione del Programmatriennale per la trasparenza e l’integrità
, da aggiornare annualmente, che indica le
niziative previste per garantire sia un adeguato livello di trasparenza e legalità che lo
sviluppo della cultura dell’integrità. Si ricorda,
infatti, che il d. lgs. n. 150 del 2009,all’articolo 11 disciplinava in la nozione di trasp
arenza e gli obblighi gravanti su ciascuna
amministrazione per garantirne l’effettivo perseguimento.
Tuttavia, le disposizionidell’art. 11, non trovando immediata applicazione p
resso le amministrazioni locali,
rimettevano alla volontà degli enti l’adozione degl
i strumenti indicati dalla norma per
garantire l’attuazione della trasparenza
.Il Programma triennale per la trasparenza e l’inte
grità, ora obbligatorio anche per
gli Enti Locali, deve contenere, inoltre, il nomina
tivo del Responsabile della trasparenza,
che provvede all’aggiornamento del Piano e svolge u
n’attività di controllo
sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione pr
evisti dalla normativa vigente.
Il provvedimento disciplina nuovamente gli obblighi
in materia di pubblicazione
della condizione reddituale e patrimoniale dei comp
onenti degli organi di indirizzo politico
nonché delle loro nomine.
A tal proposito, si evidenzia che il decreto in com
mento ha introdotto rilevanti
modifiche alla L. n. 441 del 1982 recante “
Disposizioni per la pubblicità della situazione
patrimoniale di titolari di cariche elettive e di c
ariche direttive di alcuni enti”,
ed ha
abrogato l’articolo 41-bis del d. lgs. n. 267 del 2
000 (introdotto dal d.l. n. 174/2012
convertito, con modificazioni, nella L. n. 213 del
2012), introducendo nuovi obblighi ed
un regime sanzionatorio speciale in relazione alla
mancata o incompleta comunicazione
delle informazioni concernenti la situazione patrim
oniale dei componenti degli organi di indirizzo politico
In attuazione dell’art. 1 commi 49 e 50 della legge n. 190/2012: “Disposizioni per la prevenzione e repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione”, il Governo ha emanato il decreto legislativo n. 39: “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’art.1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012 n. 190”.
La normativa costituisce uno degli elementi fondamentali della strategia di prevenzione dei fenomeni di corruzione e cattiva amministrazione che la legge ha inteso introdurre, a rafforzamento delle misure, finora prevalentemente penali, di contrasto ai suddetti fenomeni. La grande innovazione rispetto alla disciplina vigente sta nel fatto che la legge di delega, per la prima volta nel nostro ordinamento, considera specificamente gli incarichi dirigenziali e gli incarichi amministrativi di vertice, allo scopo di creare le condizioni per assicurarne lo svolgimento in modo imparziale. Questa imparzialità, secondo il legislatore delegante, deve essere assicurata sia in termini di inconferibilità degli incarichi, se il soggetto destinatario del possibile incarico ha assunto comportamenti, ha assunto cariche o svolto attività che producono la presunzione di un potenziale conflitto di interessi, sia in termini di incompatibilità tra l’incarico dirigenziale e altre cariche o attività in potenziale conflitto con l’interesse pubblico.
Cause inconferibilità. In conformità alla delega, nello schema di decreto legislativo sono individuati tre ordini di cause di inconferibilità degli incarichi dirigenziali e degli incarichi amministrativi di vertice:
1) le condanne penali (anche non definitive) per reati contro la Pa;
2) la provenienza da incarichi e cariche in enti privati;
3)la provenienza da organi di indirizzo politico.
Cause di incompatibilità. Si prevedono, inoltre, due ordini di cause di incompatibilità per coloro che svolgono gli incarichi predetti:
1) l’incompatibilità con incarichi e cariche in soggetti privati, che si estende al coniuge e ai parenti e affini entro il secondo grado ove essi abbiano una posizione di controllo dell’ente o abbiano assunto la carica di presidente o amministratore delegato;
2) l’incompatibilità con cariche in organi di indirizzo politico”.
Sanzioni. “Per le ipotesi di violazione delle disposizioni in materia di inconferibilità ed incompatibilità – si legge ancora nella nota – sono previste sia sanzioni di carattere obiettivo, volte a colpire l’atto adottato in violazione di legge, sia sanzioni di carattere subiettivo, volte a far valere la responsabilità degli autori della violazione.
Sotto il profilo oggettivo si stabilisce la nullità degli atti di conferimento degli incarichi adottati in violazione delle disposizioni in materia di inconferibilità, nonchè la nullità dei relativi contratti. Si stabilisce, inoltre, la decadenza dagli incarichi svolti in situazione di incompatibilità e la risoluzione dei relativi contratti, decorso il termine perentorio di quindici giorni dalla contestazione della causa di incompatibilità da parte del responsabile del piano anticorruzione istituito presso ciascuna amministrazione.
Sotto il profilo soggettivo si stabilisce che il responsabile del piano anticorruzione deve segnalare i casi di possibile violazione all’Autorità nazionale anticorruzione (che può sospendere la procedura di conferimento dell’incarico), all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nonché alla Corte dei Conti, per l’accertamento di eventuali responsabilità amministrative. Si stabilisce, inoltre, che i componenti degli organi che abbiano conferito incarichi dichiarati nulli sono responsabili per le conseguenze economiche degli atti adottati e non possono per tre mesi conferire gli incarichi di loro competenza; il relativo potere è esercitato – conclude la nota – , per i Ministeri dal Presidente del Consiglio dei ministri, per gli enti pubblici dall’amministrazione vigilante, per le Regioni, le Province e i Comuni da un commissario ad acta nominato dal Ministro dell’Interno”.
.
Non sarà possibile conferire incarichi dirigenziali e incarichi amministrativi di vertice – continua la nota – a chi ha riportato condanne penali (anche non definitive) per reati contro la pubblica amministrazione. Con una disciplina organica dei “conflitti di interesse”si vieta, inoltre, il conferimento di incarichi dirigenziali e incarichi amministrativi di vertice in favore di chi ha ricoperto determinati incarichi e cariche in enti privati, ovvero incarichi di indirizzo politico. Sul modello di esperienze e discipline di altri ordinamenti, sono stati dunque introdotti –in modo sistematico e puntuale- cautele e paletti importanti volti a rafforzare il sistema di prevenzione dei fenomeni di malcostume. Prevista l’incompatibilità – conclude la nota – tra incarichi dirigenziali e incarichi amministrativi di vertice e incarichi e cariche in soggetti privati nonché tra incarichi dirigenziali e incarichi amministrativi di vertice e cariche in organi di indirizzo politico. Sul modello di esperienze e discipline di altri ordinamenti, sono stati dunque introdotti –in modo sistematico e puntuale- cautele e paletti importanti volti a rafforzare il sistema di prevenzione dei fenomeni di malcostume.
Infine, particolare significato e rilevanza riveste il dec-.legvo n.62/13
Il provvedimento, emanato in attuazione della legge anti-corruzione (Legge n. 190/2012), in linea con le raccomandazioni OCSE in materia di integrità ed etica pubblica, indica i doveri di comportamento dei dipendenti delle PA e prevede che la loro violazione è fonte di responsabilità disciplinare.
Tra le disposizioni del codice le principali sono:
- il divieto per il dipendente di chiedere regali, compensi o altre utilità, nonché il divieto di accettare regali, compensi o altre utilità, salvo quelli d’uso di modico valore (non superiore a 150 euro) – anche sotto forma di sconto. I regali e le altre utilità comunque ricevuti sono immediatamente messi a disposizione dell’Amministrazione per essere devoluti a fini istituzionali;
- la comunicazione del dipendente della propria adesione o appartenenza ad associazioni e organizzazioni (esclusi partici politici e sindacati) i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento delle attività dell’ufficio;
- la comunicazione, all’atto dell’assegnazione all’ufficio, dei rapporti diretti o indiretti di collaborazione avuti con soggetti privati nei 3 anni precedenti e in qualunque modo retribuiti, oltre all’obbligo di precisare se questi rapporti sussistono ancora (o sussistano con il coniuge, il convivente, i parenti e gli affini entro il secondo grado);
- l’obbligo per il dipendente di astenersi dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti le sue mansioni in situazioni di conflitto di interessi anche non patrimoniali, derivanti dall’assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici;
- la tracciabilità e la trasparenza dei processi decisionali adottati (che dovrà essere garantita attraverso un adeguato supporto documentale);
- il rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione nell’utilizzo del materiale o delle attrezzature assegnate ai dipendenti per ragioni di ufficio, anche con riferimento all’utilizzo delle linee telematiche e telefoniche dell’ufficio;
- gli obblighi di comportamento in servizio nei rapporti e all’interno dell’organizzazione amministrativa;
- per i dirigenti, l’obbligo di comunicare all’amministrazione le partecipazioni azionarie e gli altri interessi finanziari che possono porli in conflitto d’interesse con le funzioni che svolgono; l’obbligo di fornire le informazioni sulla propria situazione patrimoniale previste dalla legge; il dovere, nei limiti delle loro possibilità, di evitare che si diffondano notizie non vere sull’organizzazione, sull’attività e sugli altri dipendenti.
E’ infine assicurato il meccanismo sanzionatorio per la violazione dei doveri di comportamento.